Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  settembre 28 Sabato calendario

L’occhiale indiscreto di Flaiano

Per chi ha imparato a non prendersi troppo sul serio, la lettura di Ennio Flaiano provoca il malinconico piacere che dà l’imbattersi in un fratello maggiore, più intelligente, ma senza fartelo pesare. E infatti, «scrittore minore satirico dell’Italia del Benessere» è l’ironico ritratto che lasciò di sé stesso.
Era pigro, Flaiano, in quanto avvertiva l’inutilità del volerci essere a tutti i costi, partecipare sempre e comunque al dibattito in corso, indignarsi un giorno sì e l’altro pure, l’overdose da prolungata esposizione e eccitazione: «Per vivere bene non bisogna essere troppo contemporanei». Come ogni pigro degno di questo nome, lavorava molto, ma per sé, in silenzio. L’uscita di L’occhiale indiscreto (Adelphi, pagg. 278, euro 15, a cura di Anna Longoni) rafforza questa sensazione. Il titolo rimanda alla omonima sezione del primo volume delle Opere stampato da Bompiani ormai trent’anni fa, ma ne recupera, integrandolo con altro materiale, due sezioni su quattro, in una logica postuma che era del resto propria a uno scrittore che pubblicò più da morto che da vivo, dieci raccolte postume di fronte a sei o sette titoli d’autore. Morì relativamente giovane, 62 anni, senza per questo essere stato uno scrittore precoce: pochi articoli fra i venti e i trent’anni, con in mezzo l’aver partecipato alla guerra d’Etiopia, pochi di più fino all’Otto settembre del ’43...
Per certi versi, Flaiano fu rovinato dal fascismo, un po’ come quel personaggio interpretato da Alberto Sordi che era stato «rovinato da la guera». Nato nel 1910, aveva dodici anni al tempo della marcia su Roma, più di trenta all’epoca della Liberazione, riteneva di appartenere a una generazione di uomini «che avevano passato tutto l’arco della giovinezza nella mortificazione più assoluta, senza poter scrivere». Non era esattamente così, perché da Montanelli, un anno più vecchio, a Vittorini e Pavese, classe 1908, per fare soltanto tre nomi emblematici nel loro rappresentare percorsi diversi fascisti e post-fascisti, la scrittura aveva rappresentato una professione, rivelato un talento, costretto a un’assunzione di responsabilità. La stessa Italia degli anni Trenta, inoltre, era molto più ricca di quanto Flaiano fosse disposto ad ammettere, ma al di là di questo lui ci era arrivato da bohémien di provincia, una laurea in architettura mai presa, incerto sul da farsi e su sé stesso: «La mia vocazione era proprio quella di non identificarmi. Ho considerato lo scrittore come un personaggio ridicolo».
La guerra d’Etiopia aveva complicato il tutto, perché da ufficiale venticinquenne Flaiano l’aveva combattuta e l’impero, la retorica che lo avvolgeva, era troppo per uno che alla retorica era refrattario quanto ostile. Ne ricaverà un decennio dopo un bellissimo romanzo, Tempo di uccidere, dove l’Africa era un fondale shakespeariano e il sogno coloniale un incubo. L’impatto con una «bassa funzione di prestigio colonialista, ormai in ritardo» lo porterà «a ripudiare il fascismo e a desiderare che la cosa finisse, brutalmente, nella sconfitta», aggravato dal fatto che rispetto ai suoi maestri riconosciuti, i Cardarelli, i Maccari, i Longanesi, alla costruzione retorica di quel fascismo lui non aveva contribuito: gli mancava l’epopea, l’aver avuto una fede in qualcosa, la delusione che nasce dall’averci creduto. Ancora nel 1944 si sorprenderà ad osservare: «Uno dei caratteri dell’italiano è la facilità con la quale prende le sue risoluzioni. Molta gente oggi non sospetta nemmeno che farebbe meglio il suo dovere verso l’Italia restando fascista piuttosto che ripudiando per paura una dottrina che per vent’anni ha reso valida con il suo consenso. E non si dica che con ciò auspico il ritorno dei fascisti, e non mi si opponga che di fascisti ce ne sono già troppi; vorrei soltanto che la gente credesse a qualcosa, al di fuori del suo tornaconto».
Nella nuova Italia repubblicana e antifascista Flaiano visse per un quarto di secolo, e non gli piacque così come non gli era piaciuta quella fascista della sua giovinezza. C’era il valore aggiunto della libertà, «concetto del tutto simbolico, ma simbolico fino a un certo punto», il bisogno «di potersi esprimere» senza «il terrore di sentirsi scoperti, seguiti e catalogati». Ma questa libertà coincideva con un’Italia fragile, un malato «troppo debole e troppo frivolo per avere sintomi seri». In fondo, lo si era capito sin dall’inizio, «saremmo persino disposti ad un’altra dittatura purché cambiasse titolo», una variante sul tema di quanto già l’ex fascista Maccari aveva messo in evidenza: «Per indisposizione del dittatore, la democrazia si replica».
Così, il problema dello scrittore in Italia, il suo «voler descrivere qualcosa di cui possa darsi testimonianza» si scontrava per Flaiano con un’Italia del benessere «pulcinellesca e balordona» in cui non c’era più spazio per la tragedia, ma solo per la farsa, l’Italia dove anche il cretino era «specializzato», il Paese dove ci si «batteva per le idee, non avendone»... Il cosiddetto boom economico, «la makina» e la televisione come nuovo collante nazionale, divennero per Flaiano gli elementi accidentali e superficiali di chi intanto, e più o meno segretamente, scriveva d’altro: «Noi non sappiamo chi siamo, viviamo da passeggeri senza bagagli, nasciamo soli e moriamo soli»... Non sorprende che all’estero ci fosse chi lo scambiasse, e non a torto, per uno scrittore latino, Ennius Flaianus... «Io forse non ero un uomo di quest’epoca. È probabile che io sia un antico romano che sta qui ancora, dimenticato dalla storia, a scrivere cose che altri hanno scritto molto meglio di me: Catullo, Marziale, Giovenale».
Nelle pagine dei suoi libri, i postumi come quelli pubblicati in vita, c’è una poesia di d’Annunzio sempre presente, La Sabbia del Tempo, lì dove «l’appressar dell’umido equinozio» «offusca l’oro della piagge salse»: «Alla Sabbia del Tempo urna la mano/ era, clessidra il cor mio palpitante,/ l’ombra crescente d’ogni stelo vano/ quasi ombra d’ago in tacito quadrante». Questo del tempo che fugge era Flaiano, il Flaiano vero.