Tuttolibri, 28 settembre 2019
Tra biografia e romanzo
Ciascuno di noi ha una sola vita da vivere e modi infiniti per immaginarne altre: o, come recita un verso del 1935 di Montale, «Occorrono troppe vite per farne una». Da questa consapevolezza parte Riccardo Castellana, che nel suo Finzioni biografiche s’impegna a ricostruire teoria e pratica di un genere letterario fortunato della nostra contemporaneità: la biofiction. Il termine, coniato da Alain Buisine nel 1991, indica la forma che racconta «le vite di persone reali nei modi specifici della fiction letteraria» e si alterna nel saggio proprio a «finzioni biografiche», che rende meglio il panorama plurale e frammentario sintetizzato da Castellana.
Nell’introduzione teorica Fiction, non-fiction, biografia, l’autore opera una prima distinzione fra narrazioni storiche e romanzesche. Se la storiografia moderna ricostruisce gli avvenimenti per congettura, sulla base dei documenti arrivati a noi, il romanzo trascura l’esattezza per cercare una verità più profonda sulle cose. Lo storico è un narratore «nesciente», cioè parte da una conoscenza incompleta degli eventi reali e ricostruisce solo quello che con ogni probabilità è successo; il romanziere è onnisciente e tirannico nel mondo da lui stesso creato, e gli interessa soprattutto tutto ciò che potrebbe succedere, verosimile o meno.
La biofiction degli ultimi due secoli racconta di personaggi davvero esistiti con licenze che uno storico non potrebbe mai prendersi: una situazione nuova, determinata dalla progressiva separazione fra storia e romanzo (ma forse la storicizzazione della biografia, dall’Antichità a oggi, è un po’ troppo scorciata nella sintesi generale).
Ma come si inventa, nel concreto, il racconto della vita individuale? Nella prima parte «Problemi e modelli», Castellana esamina numerose teorie della fiction e individua, con un discorso scorrevole e preparato, strategie discorsive per «romanzare» un racconto storico: la suspense, le anacronie, i finali a sorpresa, l’inserzione di aneddoti inverificabili o addirittura fantastici, la trascrizione della vita interiore altrui (lo storico non sa cosa pensassero i suoi personaggi; il romanziere lo ipotizza con l’artificio dell’onniscienza). In una classificazione capillare, ogni opera viene incasellata secondo rigorosi criteri narratologici, come ad esempio il punto di vista adottato nel racconto e la posizione del narratore rispetto al biografato. Rare volte, la proliferazione di categorie prende il sopravvento sull’analisi del testo e sull’approfondimento verticale: il manuale s’ingarbuglia e il lettore rischia di perdersi, come nelle pagine sulla «metabiografia» (con la Nausea di Sartre definita tale, quando potrebbe più economicamente essere chiamata solo «romanzo»).
Nella seconda parte «Temi e tradizioni» il discorso teorico passa alla prova dei testi, senza alcuna ambizione di canone: notevoli gli approfondimenti sulle opere di Michele Mari e l’articolata lettura di L’editore di Nanni Balestrini, una biofiction da riscoprire su Giangiacomo Feltrinelli. Castellana, sulla scorta di Luperini e Donnarumma, delinea una distinzione storico-culturale fra biofiction postmoderna (Mari) e biofiction ipermoderna (Balestrini, ma anche, fra gli altri, Davide Orecchio): la prima inventa con disinvoltura, si smarca dalla cronaca e ci racconta l’impenetrabilità del biografato alla nostra comprensione; la seconda racconta la Storia con una vocazione diretta e ben più impegnata, portandoci a un tentativo di identificazione con la persona di cui si narra la vita.
Andando verso il presente, il testo acquista in spessore critico. Si riflette sul carattere «contronarrativo» delle biofiction: sia quelle meno complesse, che si propongono di raccontare versioni alternative degli eventi fornendo una qualche compensazione simbolica e finiscono per diventare «a tesi», sia quelle che decostruiscono criticamente il passato, «perché il suo significato più autentico e più vivo per noi può manifestarsi anche attraverso l’immaginazione».
In chiusura, sono da notare le riflessioni sull’equivalenza fra instabilità del nome e precarietà dell’io nella narrativa contemporanea (anche se è un tema che risale almeno a Marcel Schwob, forse). E soprattutto, l’ipotesi sulla convergenza di biografia e romanzo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento è illuminante. Le vite comuni, nella loro singolarità e irrilevanza, diventano da quel periodo degne di essere narrate: non perché debbano essere riscattate, ma proprio in virtù del non significare altro che se stesse. Verrebbe voglia di un altro saggio per approfondire le questioni in gioco: ma intanto, chi volesse capire come si faccia letteratura con la biografia dovrà passare attraverso questo libro.