Tuttolibri, 28 settembre 2019
Biografia di Thomas Bernhard
Dopo il suicidio dei nostri genitori siamo stati rinchiusi per due mesi e mezzo nella torre, emblema della nostra Amras». Così si apre la cronaca del tentativo, parzialmente fallito, di autoestinzione di una famiglia. È stato lo zio, fratello della madre, a portare K. (il narratore) e suo fratello Walter a Amras, nella torre, per proteggerli dagli attacchi degli uomini e cercare di nasconderli e salvarli «dagli sguardi del mondo che agisce e giudica solo con malvagità».
L’antefatto: nella casa della Herrengasse, il tre marzo, dopo giornate di afa e poi sotto un föhn che soffiava senza posa, tutta la famiglia aveva assunto la giusta dose di compresse e aspettava che calassero rapide le tenebre, «perché fosse finita, perché insieme alla luce del giorno anche noi, genitori e figli, potessimo semplicemente scomparire nel sonno, in fretta, senza fatica, spegnerci, non esserci più». Ed ecco che, dopo aver contemplato a lungo la bevanda biancastra ottenuta con le compresse del sonnifero, e averla bevuta, la famiglia al completo, tutti isolati dal mondo e stretti l’uno con l’altro, dopo aver tirato le tende, nell’attesa della propria fine imminente, ascolta i rumori che vengono dalla strada: un autocarro, una risata, un lontano frastuono. Fra poco saranno liberi di uscire dalla gabbia, «simili ormai a un gruppo di viaggiatori che aspettano in silenzio la partenza di un treno sul quale sono saliti da tempo».
È grazie alla soffiata di un creditore del padre, un commerciante, che la «congiura famigliare» viene scoperta e resa di pubblico dominio con un lieve anticipo tale che lo zio riesca a salvare i due nipoti, non ancora morti, «completamente nudi, avvolti in due coperte da cavallo e in una pelle di cane... ancora in stato d’incoscienza» e a portarli in tutta fretta al riparo, nella torre di Amras. Nei mesi della faticosa ripresa, ai due fratelli toccherà anche (tema quanto mai caro a Thomas Bernhard) di ascoltare innumerevoli dicerie e notizie sulla messa in liquidazione di tutti i beni famigliari. «Ci veniva detto che tutto ciò cui la nostra infanzia era stata devotamente attaccata, veniva disperso ai quattro venti con la fretta di chi diventa il nuovo proprietario ufficiale, che ci veniva sottratto su vetture piccole o grandi e distribuito in ogni dove, così come Walter aveva immaginato... in conformità a una decisione del Tribunale, abbiamo dovuto separarci persino dalle nostre biciclette, regalo di compleanno dello zio, perché nostro padre era l’uomo più indebitato dell’Inn». Questo per quanto riguarda la prima metà della storia. Una storia che possiamo riuscire a montare in una sequenza coerente, mettendo insieme quello che Bernhard racconta attraverso una serie di frammenti. Perché Amras, seconda opera pubblicata da Thomas Bernhard nel 1964, dopo il successo di Gelo, è un testo che si costruisce attraverso frammenti di varia natura e di differente forma: un qualcosa che potremmo abusivamente chiamare il resoconto dei fatti da parte del narratore, lettere a differenti persone come lo zio, il Sig. Hollhof, il Sig. L. T., il Prof. Nicolussi e il botanico Ratteis, appunti e pensieri provenienti da un quaderno di Walter (il fratello del narratore), da un Taccuino, eccetera. Vincenzo Quagliotti, prefatore dell’opera, ci ricorda che Bernhard in un’intervista aveva detto: «non sono un narratore di storie, io odio profondamente le storie. Sono un distruttore di storie, io sono il tipico distruttore di storie. Nel mio lavoro, quando qua e là si formano i primi segni di una storia, o quando vedo spuntare da dietro la collina di prosa l’accenno a una storia, le sparo addosso». Nella stessa intervista, qualche riga più avanti, Bernhard aggiunge che «non può esserci nulla di totale, bisogna farlo a pezzi. Qualcosa di riuscito, di bello diventa sempre più sospetto... Così è falso per lo più scrivere un libro fino alla fine. E l’errore più grande è quando un autore scrive un libro fino alla fine». Si tratta dunque di una frammentarietà e di una parzialità che secondo Bernhard sono l’unico mezzo per creare immagini del mondo adeguate. E l’altro filo che, attraverso l’illuminate e il frammentario, può ricucire il libro sarà un parziale resoconto del destino di Walter, l’altro fratello, da sempre di costituzione delicata e come la madre epilettico, «vittima di un sistema nervoso piuttosto bizzarro». Dunque frammenti, percezioni, ma anche microstorie: interessante a questo riguardo la storia del coltello di Augusta, un antico coltello del 1557, che serve a tagliare il pane e normalmente sta appeso al muro della cucina di Amras, a due metri dai pagliericci dove dormono i due sopravvissuti. Walter non ha mai osato maneggiarlo e «aveva paura anche soltanto di prenderlo in mano», ma spesso di notte poteva capitargli di fantasticare intorno al coltello, temendo che in mano sua sarebbe servito a «infliggere sofferenze che altrimenti non sarebbero mai nate». Sono queste le immaginazioni che Walter fa del coltello. Ma ogni volta che il fratello usa il coltello di Augusta non può fare a meno di fissarsi ossessivamente: ogni volta che «staccavo dal muro il coltello di Augusta, attorno alla sua bocca si notava una contrazione morbosa... Walter seguiva ogni mia operazione di taglio con un’attenzione enorme». Se Walter guarda ossessivamente il coltello ogni volta che il fratello la usa per tagliare il pane, quando il fratello non lo maneggia, in modo ugualmente ossessivo, Walter evita di guardare il coltello per non rischiare «di nuocere alla sua salute». Fin da bambino, durante le vacanze estive a Amras, Walter aveva temuto il coltello di Augusta. Lo zio, che non accettava che Walter avesse paura del coltello «una volta tentò di imporglielo di prepotenza, di premerglielo in mano con la tipica prontezza dell’adulto, ciononostante il mio Walter riuscì a evitarlo balzando indietro... il coltello era precipitato in terra, me ne ricordo esattamente».