Tuttolibri, 28 settembre 2019
Biografia ad Antonio Rezza
Mi sento libero. Non è una questione ideologica, ma di intestino. Ci hanno insegnato a sopravvalutare il cervello, per me è un congegno marginale rispetto all’emozione. La mia libertà è che se faccio un libro o uno spettacolo brutto, non lo faccio uscire, questo è un privilegio: negarsi la possibilità di fallire». È così che dal 1987 Antonio Rezza lavora «anche in contumacia» con Flavia Mastrella, artisti unici che sfuggono a classificazioni di genere, divertenti, surreali e sfrontati, indipendenti, senza sovvenzioni, perché «l’arte deve essere sprotetta per essere dirompente». Il binomio Rezzamastrella, nel 2018 insignito del Leone d’oro alla carriera per il Teatro dalla Biennale di Venezia, ha firmato spettacoli, installazioni, film, trasmissioni televisive. Lui, autore e performer, sale sul palco con fisicità plastica e voce stridula negli «habitat» che lei, autrice e artista, crea incorniciandogli il viso. «Ci sono terreni che io e Flavia percorriamo da soli: lei fa mostre, io scrivo romanzi» spiega. La nave di Teseo riporta in libreria dopo molti anni i suoi Non cogito ergo digito (1998), Ti squamo (1999) e Son[n]o (2005), un modo solo suo per dire di sé, quasi impossibile da raccontare.
Come ricorda l’impatto con la scrittura?
«Ho cominciato pensando che un libro mi desse libertà che il teatro o il cinema non permettono: puoi far volare chi vuoi, spostare una persona da un luogo all’altro. È un terreno più libero al controllo, apparentemente. Lavorai a Non cogito ergo digito cercando di disattivare quello reazionario della mente, in assoluto stato di trance agonistica, mezz’ora al giorno, dopo provavo nausea per quell’accavallarsi di parole non riflettute. La stesura originale, a parte qualche civetteria autoriale, è la stessa che diedi a Nanni Balestrini. Mi invitò a “Ricercare” che a Reggio Emilia, negli anni ‘90, ha scoperto molti giovani autori. Lì conobbi Elisabetta Sgarbi che lavorava in Bompiani, e con lei sono rimasto. Occasioni così non ce ne sono più. Esistono i talent che sono organi di repressione, olocausti moderni con persone mandate allo sbaraglio: bisognerebbe eliminarli nell’interesse di un’etica migliore, che poi è secondaria solo all’estetica».
Quel romanzo è una cavalcata epica, fra centinaia di scenari, viaggi nella Storia o su Giove, oltre cinquanta personaggi. Costretto a stare fermo, ha fatto muovere loro?
«Non sono mai stantii, hanno sempre l’affanno perché sono incapace io di stare seduto: dopo un po’ mi annoio. Credo che la noia sia una patologia non riconosciuta, è l’anticamera della depressione. Viene giudicata un atteggiamento snob di chi si disinteressa alle cose, ma credo che nella noia ci sia il sedimento per derive inaspettate della mente».
Il protagonista di “Ti squamo” smette di mangiare. Cosa significa la sua anoressia?
«Scrissi quel libro perché razionalizzai che la parola e il cibo utilizzano lo stesso canale, si incontrano nella laringe. È una imperfezione del creato che ciò che diventa poesia incontri nel suo percorso qualcosa che diventa merda. Il libro è la trattazione assurda e ossessiva di questo personaggio che scava ovunque alla ricerca della parola, anche nei citofoni o nella cornetta del telefono».
In “Son o” invece Anto vuole “imparare a dormire sulla vita che scorre”.
«Bompiani aveva pubblicato Neve di Maxence Fermine in una trilogia molto ruffiana sull’amore. Mi sono divertito a farne una copia speculare, mantenendo l’haiku e sostituendo la neve con il lenzuolo di sotto, inserendo il sonno come caratteristica principale. È venuto un testo ritmicamente identico e musicalmente superiore a quello, è un punto di vista mio oggettivo. Volevo dimostrare che le cose scritte bene, cambiando pochi elementi e componendo non per voler arrivare alla comprensione del lettore, ma per scardinare le sue certezze, vendono al massimo 5-6 mila copie, non le ottocentomila di chi è stato più disonesto. Non è offensivo definire così alcuni scrittori, cineasti e teatranti. È la loro attività prediletta».
Perché da tanto tempo non pubblica un romanzo?
«Qualunque scrittore sa che, compiendo questo esercizio da fermo, ha la possibilità di prevedere l’effetto di quello che sta scrivendo. La scrittura dà questo piacere e infligge questa vergogna. Nelle prove aperte dei nostri spettacoli, attraverso il movimento del corpo in apnea e la sua sofferenza, ho sperimentato che non posso avere il controllo perché il corpo è impegnato a respirare e non a prevedere. Ecco, non mi piace sapere quello che accadrà nella testa di chi mi vede, o legge. Io credo nell’arte autoreggente, non ci deve essere nessuna previsione o copartecipazione a priori, altrimenti si scade nella menzogna».
Che lettore è?
«Dei libri belli bisogna fidarsi e avere il coraggio, il pudore di non leggerli, perché aggiungeremmo soltanto un complimento in più. Mi piace chi è riuscito a scrivere per se stesso».
Di chi si fida?
«Di Canetti, di Cioran. Ho tutto Artaud, ma ne ho lette pochissime pagine: ho una biblioteca piena di titoli meravigliosi non letti. Di fronte a tanta bellezza mi sottraggo, non voglio sciuparla con la mia comprensione».
Non è importante capire?
«Le cose che mi piacciono di altri sono quelle che non capisco. Da qui si sviluppa anche con la letteratura un’opposizione frontale nei confronti di una narrazione classica: è il flagello della letteratura. Quello del teatro sono i reading, li abolirei: una scorciatoia produttiva per far credere a chiunque che con un leggio davanti si possa stare su un palco».
Come convivono il performer e lo scrittore?
«Sono abituato ad avere davanti centinaia di persone, non so come lo scrittore faccia a sopportare il rapporto uno a uno con il lettore. Proprio perché è più intimo lo scrittore dovrebbe avere più rispetto, essere meno bugiardo di altri artisti: sa che muoverà determinati stati d’animo in chi legge, e che in quell’istante sarà solo».
Perché nei suoi lavori è così presente il tema della morte?
«È un chiodo fisso se ami con voracità la vita. Canetti dice che non dobbiamo mai dimenticare che la morte è l’unico nemico che abbiamo, che non dobbiamo mai smettere di odiarla. Io sono ateo integralista, non vedo cosa facciamo di così speciale da meritarci un’altra possibilità. E se tu non hai nulla, a parte il tuo corpo e le tue emozioni, la morte diventa un problema, ogni giorno. Io ce l’ho da quando ero piccolo. La esorcizzo negli spettacoli, nei libri e nei film».
Il protagonista di “Ti squamo” si innamora di una bulimica, quello di “Son o” di una sonnambula, in “Non cogito” ci sono gelosie, tradimenti, storie d’amore.
«L’amore non potrà mai essere un problema così grande. De André diceva che innamorarsi è un equivoco della ragione. Lo trovo fulminante, perché è così. Smettere per un periodo di essere tuo per essere in subaffitto credo sia una ambiguità. Tutti perdiamo la testa per qualcuno che magari non ha neanche le caratteristiche giuste. È irrazionale e mi chiedo perché l’irrazionalità che potrebbe salvare l’umanità si sia andata a rannidare in un sentimento cosi fatuo».
Tutti e tre i libri hanno una struttura non convenzionale.
«In Un apolide metafisico Cioran dice che nel frammento è più difficile mentire, ed è vero, perché non si dipana la matassa narrativa. Il nostro sguardo è frammentato, noi viviamo interrotti da sollecitazioni e non vedo perché l’arte debba sempre andare alla ricerca di un proclama unitario, di una storia che prenda per mano. L’antinaturalismo sta nel combattere il realismo di chi mente attraverso la rappresentazione della realtà. Ci sono libri, spettacoli o film che sono dei patiboli, ma nessuno che scriva mai: in quel teatro o in quel cinema son morte mille persone, impiccate al filo del discorso».
«Apro l’album delle foto e mi vedo a settant’anni: m’appaio così poco cambiato da risvegliare in me ansie di sviluppo» dice uno dei suoi personaggi. Lei come si immagina?
«Mi alleno molto, sempre di più con il tempo che passa. Mi sono curato, mettendo insieme talento e disciplina. So che fra dieci o quindici anni sarò in grado di fare le stesse performance di oggi, mi incazzerei se mi accorgessi che la gente viene a vedermi soltanto perché faccio cose che a quell’età non potrei fare. Dopo aver dato la vita senza concedere mai nulla a se stesso né agli altri, uno rischia di vedersi ridicolizzato a fenomeno da baraccone, una macchietta da commedia dell’arte. Sarebbe beffardo. Ma avendolo capito prima, cercherò di evitarlo. Bisogna distruggere il senso della vecchiaia negli occhi di chi la guarda».
Sta camminando anche durante l’intervista. Davvero non si ferma mai?
«Le idee vanno attese, ci sono momenti in cui bisogna stare fermi e aspettare che arrivino. Serve dimestichezza, confidenza. Alle prime non bisogna affezionarsi, non saranno mai le più affidabili. Avevo un luogo dove le attendevo da 35 anni. L’Ex Divina provvidenza da cui il comune di Nettuno, la mia città, cui abbiamo donato tanto lavoro e luminosità, ci ha buttato fuori. È una ferita che rimarrà aperta, perché io non voglio che si chiuda. Mi chiedo che vita possa fare un artista che non conosce la libidine, il fremito, la scossa elettrica che dà un’intuizione assolutamente originale».
Me ne racconta una?
«Con Flavia giriamo un film in cui io invecchio e mio figlio, che ha 10 anni e mezzo, cresce. Ogni tre mesi una scena. Lo porto in braccio e quando non ce la farò più lo trascinerò, poi sarà lui a trascinare me, a tenermi in braccio quando morirò. Sarò il primo attore della storia a recitare da morto, con una pianificazione precedente. Di solito queste idee, prima che si concretizzino, non si raccontano, però questa, per fregartela, uno deve essere disposto a morire».