Robinson, 28 settembre 2019
Pianoforte, intervista ad Angelo Fabbrini
Mentre mangia la sua coppa di gamberi in salsa Worcester penso che Angelo Fabbrini sia un uomo fortunato. Sediamo in un ristorante sul lungomare di Pescara, dove vive e dove gestisce una florida attività di pianoforti. È nato a Pesaro nel 1934. Osservo i suoi modi gentili: gli occhiali di metallo, lo sguardo cauto sul volto mite che si confonderebbe in mezzo a tanti altri, i capelli finissimi e leggermente lunghi. È minuto, con mani piccole e sode. Arriviamo da una lunga conversazione svolta nel suo negozio. Diciassette vetrine e uno spazio interno che allinea una notevole quantità di pianoforti. Soprattutto Steinway. Fabbrini è il mister Wolf di questo strumento. È l’accordatore. Mi racconta la storia di Giovanni Sgambati: «Franz Listz lo sentì suonare e lo prese come allievo. Perfino Wagner ne fu incantato. E quando Sgambati divenne ricco trasformò il suo appartamento di piazza di Spagna, a Roma, nel luogo segreto dove poter ascoltare musica straordinaria. Spesso vi erano ospiti Listz e lo stesso Wagner. Da lì passarono Ciaikovskij, Brahms, Busoni. D’Annunzio adorava i concerti di Sgambati. E quando Listz morì, Wagner grazie a Sgambati ereditò il suo Bechstein. Ci sono luoghi che proteggono dal flagello della mediocrità. Nell’abisso del suo talento mi immagino Wagner, con la giacca di velluto e il berretto alla Raffaello, mentre sfiora la tastiera». Qual è il segreto del grande musicista? «Prima che tocchi lo strumento, la musica vive già nella sua testa. È il modo in cui il pensiero traduce l’arte». Come arriva al mestiere di accordatore? «Papà lo insegnò a me e a mio fratello Vittorio, purtroppo scomparso da pochi mesi. Immagini come ci si possa sentire quando viene a mancare la parte con cui si sono condivisi settant’anni di storia privata e professionale. Nostro padre voleva che sulla via della tecnica diventassimo uomini fuori dal comune». Perché non concertisti? «È una scelta che non può decidere un genitore. Un padre può renderti migliore ma non può darti il dono di un’arte destinata a pochissimi». Non ha neanche provato? «Certo. Mi sarei disprezzato se non avessi tentato. Mi sarei depresso se avessi continuato. Avrei voluto non solo studiare pianoforte ma suonarlo ai massimi livelli. Capii subito che c’erano allievi più bravi di me. Mi bastò sentire suonare Alfred Cortot per avere la certezza che mai avrei raggiunto quelle vette». Eppure il suono ha pochi segreti per lei. «Il mio orecchio è buono, ma per bruciare il cuore del pubblico occorre ben altro. Mi è sembrato allora che dovessi fare della mia debolezza un punto di forza». L’accordatore? «Con gli anni mi sono reso conto che anche questo mestiere è una forma d’arte». In che senso? «Ho cercato attraverso lo strumento il possesso diretto del suono. Come se il suono più che dal pianoforte esca dalla testa e dalle mani dell’esecutore. Dopo un concerto particolarmente riuscito, Nikita Magalof disse che grazie a me aveva suonato senza l’impaccio della meccanica». Come se si fosse annullata la presenza del pianoforte? «So bene che non è possibile, ma è questo che intendeva. Un violinista è in grado di modulare il suono sulla corda. Il pianista non ha questo contatto, le corde sono dentro lo strumento in un sistema che contempla martelletti, feltri, e infine la tastiera con i suoi bianchi e neri». E dunque? «Provi a immaginare se questa possibilità gli fosse offerta, non dico che si possa interamente realizzare, ma avvicinarvisi. Ecco, se vuole, è questa la mia ossessione: cercare di annullare i passaggi intermedi che conducono alla realizzazione del suono». Crede di esserci riuscito? «Posso solo dirle che tutta la mia vita di accordatore tende verso l’utopia del suono. Del resto, credo sia questa specie di missione la cosa più apprezzata dai pianisti con i quali ho lavorato e lavoro». Ce ne sono di prestigiosi. «È un elenco significativo». Faccia qualche nome. «Ho cominciato con il duo Gorini e Lorenzi, poi tra i grandi e grandissimi: Nikita Magalof, Emil Gilels, Martha Argerich, Bruno Canino, Michele Campanella, Dino Ciani, Alexis Weissenberg, Andràs Schiff, Alfred Brendel, Radu Lupu, Arthur Rubinstein, Maurizio Pollini, Arturo Benedetti Michelangeli». Alcuni di questi nomi sono nella leggenda pianistica. Quale l’ha segnata di più? «Con Benedetti Michelangeli ho lavorato per 17 anni». Non era un uomo semplice. «Non lo era». La cercò lui?»No, fu un dirigente della Steinway a farlo. Mi chiamò per dirmi che di lì a qualche tempo Benedetti Michelangeli avrebbe tenuto un concerto alla sala Nervi in Vaticano per Paolo VI. Il maestro voleva suonare con uno Steinway e io ne possedevo diversi. Uno di questi pianoforti era in un castello all’Aquila. Il maestro venne e ne approvò il suono. Dopo di che lo feci trasportare in Vaticano. Il giorno dopo il concerto, la sua segretaria mi telefonò per chiedermi se ero disposto a lavorare per il maestro, seguendolo nei vari concerti». Fu sorpreso?»Sinceramente non me lo aspettavo. Lo accompagnai a Linz e Bregenz. Ricordo la venerazione del pubblico austriaco e la freddezza del maestro. Non faceva nulla per accattivarsi chi era lì ad ascoltarlo». Cosa chiedeva al suo lavoro? «La perfezione del timbro, questo è ovvio, anche se la perfezione assoluta si può solo sfiorare. E poi pretendeva la dedizione. Non potevano esserci orari, imprevisti, incidenti. Quando mia moglie stette per partorire ero con lui. Avrei potuto e forse dovuto dirgli che qualcosa di molto importante mi avrebbe tenuto per qualche tempo distante da lui». E invece?»Ho taciuto, nonostante stesse per nascere mio figlio sono rimasto accanto a lui. La cosa buffa è che quando glielo ho detto, mi ha guardato con una certa meraviglia e forse non si aspettava una dedizione così totale. Tanto è vero che pretese, e io ne ero immensamente felice, di fare da padrino al bimbo». Ma non c’era in questo suo atteggiamento anche una certa maniacalità? «È il tratto che si è spesso sottolineato. La chiamerei apprensione. Una volta preparai uno Steinway per lui. Avevo “registrato” il pianoforte e il suono sembrava un miracolo di trasparenza ed equilibrio. Il maestro era soddisfatto. Il giorno dopo ci sarebbe stato il concerto. Quella sera Michelangeli mi chiese di dormire accanto al pianoforte. Come dormire? Dissi. “Vede, Fabbrini, supponga che qualcuno inavvertitamente o volontariamente manometta i tasti o le corde che cosa accadrebbe?” Ero allibito». Scommetto che per la solita dedizione accettò di fare la guardia al pianoforte. «In realtà chiamai un mio assistente che dormì accanto al piano al posto mio. Sì, le reazioni del maestro potevano sembrare eccessive. Come quando pretese che indossassi guanti bianchi di filo perché non opacizzassi la vernice nera dello strumento». Lo ha frequentato anche fuori dalla professione di accordatore? «Era un uomo molto appartato. Esigentissimo». Frequentava altri pianisti? «Non quelli con cui avrebbe potuto misurarsi. Solo una volta lo vidi molto rilassato durante un incontro con Oscar Peterson. Mi sembrò perfino divertito davanti allo straordinario interprete di jazz». Ha mai lavorato per jazzisti? Per Michel Petrucciani e Keith Jarrett. A quest’ultimo, giovanissimo, feci provare uno Steinway per un concerto. Fu molto gentile. Lo sistemò sul palcoscenico non distante dalla batteria. Poi accadde una cosa buffa: il suo batterista si mise al piano e lui alle percussioni e cominciarono a duettare. Rimasi sorpreso dal fatto che scambiandosi i ruoli le sonorità restassero bellissime». Pensi Benedetti alla batteria! «Per lui non esisteva che il pianoforte. Anche se, come notò Alberto Savinio, sembrava suonasse più strumenti in uno. La sua sola stravaganza era l’amore per le macchine da corsa. Possedeva una Lamborghini e una Ferrari. Guidava come fosse in pista e, poi, ho saputo, era un accanito lettore di Topolino». È stato con lui fino all’ultimo? «Fino alla fine sì. Ricordo che dovevo raggiungerlo a casa, vicino Lugano, per cambiare una martelliera. L’appuntamento era alle dieci del mattino. Alle sette mia moglie ricevette una telefonata. La segretaria le disse che il maestro stava poco bene e che era meglio spostare l’appuntamento. Qualche ora dopo una nuova telefonata mi avvertiva che il maestro non c’era più. Fu terribile e lo è tutt’ora che le rievoco quel momento». Cosa fece? «Andai a Pura, dove viveva. Ci fu il funerale nella piccola chiesa parrocchiale. Pochi allievi e in più ricordo la presenza di Maurizio Pollini e Martha Argerich. Da Amburgo era venuto il direttore della Steinway. Pensai al suo ultimo concerto su Debussy. Si parlò molto di quella sera in cui il maestro ruppe una certa impassibilità, come a voler cercare nuove strade. Ma quella volta non c’ero». La sua, di strada, è sempre stata quella dell’accordatore. «Adoro ciò che faccio e i pianisti che frequento. Da anni ormai il rapporto più costante è con Maurizio Pollini. Lo seguo quasi ovunque lui vada. Tra le tante cose, mi ha fatto scoprire l’importanza del palcoscenico». Ossia? «Una volta mi chiese di spostare il pianoforte di pochi centimetri. È sicuro maestro? Gli chiesi. Mi dia retta, sentirà la differenza, disse». Era vero? «Sì». Che rapporto ha con il suono? «Per me è cercare qualcosa che non troverò mai. Ogni pianoforte sul quale lavoro ha una sua, diciamo così, personalità. Un colore. Una figura che mi si forma nella testa». Suono e immagine? «Come altro spiegarle ciò che voglio dire? Una volta guardando un quadro di Rembrandt notai una sfumatura e mi chiesi cosa ci fosse dietro quell’ombra. Io ci vidi una figura. E mi capita di dire ai miei assistenti: voglio che questo pianoforte abbia il suono di Rembrandt. Ci sono vari sistemi di accordatura, ma mettere tutto insieme con una visione è il segreto». Qualcosa di inesprimibile? «Che non si può rappresentare. Qui da me vengono da tutto il mondo per capire il segreto del suono. Poco tempo fa si è presentato un gruppo di giapponesi con una cartellina piena di grafici. Volevano che spiegassi sulla carta gli effetti del suono. Li ho guardati e ho detto: posso farvi ascoltare ciò che faccio, come realizzo una definizione che ho nella testa». Le capita di suonare? «Mi accade di farlo. Soprattutto dopo aver accordato lo strumento. Io so che il grande artista sente non solo con l’orecchio ma anche con la mano. È questo il difficile: far convivere le due sensibilità. Pochi, solo i grandissimi ci riescono. Io non ho quel talento». Ha una spiegazione del talento? «No, so soltanto che se un artista mi lascia un ricordo indelebile del suo concerto, beh lì c’è il talento. Voglio dire che posso indicarlo ma non spiegarmelo». Per quanto tempo ancora continuerà il suo lavoro? «Finché potrò. È la mia vita: vorrei morire addormentandomi, questa volta sì, accanto a un mio pianoforte. Sarebbe la migliore fine perché vorrà dire che il pianoforte mi avrà accettato».