Robinson, 28 settembre 2019
Trattamento della parola verità da parte di Manuel Agnelli
Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!” diceva il Michele Apicella interpretato da Nanni Moretti in un momento di Palombella Rossa rimasto nella storia e che riecheggia ancora oggi in maniera sinistra. Infatti, dopo un brutto periodo in cui in cui si è tessuto l’elogio dell’ignoranza mentre la cultura sembrava un demerito, sembra esserci qualche speranza di rinsavimento, grazie anche a iniziative come quella di Treccani, il primo Festival della lingua italiana, il cui motto sembra riecheggiare le parole di Moretti, #leparolevalgono con tanto di hashtag che invita alla discussione in rete: «Treccani crede fermamente che la parola sia stata, sia e debba continuare a essere espressione di ragionamento, condivisione e anche, senz’altro, confronto sincero tra diverse posizioni, ma sempre rispettoso e costruttivo, finalizzato alla crescita della democrazia» spiegano gli organizzatori. Che per divulgare meglio il concetto non hanno scelto solo scrittori o “professoroni” (il dileggio delle competenze fa parte di un’altra “moda") ma anche artisti famosi come Vinicio Capossela e Manuel Agnelli che possono arrivare a un pubblico ampio e trasversale: «Siamo in un periodo di grandi cambiamenti anche linguistici», spiega Agnelli, «come ogni generazione, anche quest’ultima sta coniando neologismi o riprendendo termini desueti che diventano di uso comune. Al contrario di quel che si dice infatti, l’italiano è una lingua vivissima ma ci vuole anche qualcuno che possa offrire un punto di riferimento e tenere la barra dritta. Apprezzo molto gli sforzi che Treccani sta facendo per parlare alla gente e continuare a ricoprire un ruolo che è sempre stato fondamentale e lo è anche di più in un periodo di destrutturazione culturale come questo». In linea con la vocazione di Treccani, ogni giorno del festival sarà dedicato a una parola: si inizia il 15 ottobre con “verità” a cui seguono “ambiente” ed “empatia”. Una delle tue canzoni più famose si intitola “Quello che non c’è": oggi secondo te la “verità” esiste nei media? Ed è cambiato qualcosa con le nuove tecnologie come Internet e i vari social? «È cambiato che, se un tempo si condizionavano le notizie, adesso invece si inventano di sana pianta. Sul web trovi cose completamente false che, oltretutto, sono poi anche difficilissime da smentire data la velocità della rete nel diffonderle. E naturalmente la smentita non ha mai la stessa forza della notizia inventata e quasi scompare per cui, secondo me, una delle cose più importanti venute a mancare negli ultimi anni a causa del web (ma non solo) è proprio questa: la verità». Il film “Rashomon” di Kurosawa in cui ognuno dei personaggi racconta una storia dalla sua prospettiva, ci spiega che potrebbeessere molto difficile definire che cos’è la verità. «Diciamo che se ieri la verità era interpretabile, il problema è che oggi non gliene frega niente a nessuno o quasi di cosa è vero. Oggi è più importante il consenso. Che si può manifestare in molti modi: per esempio con i famosi “like”. I poveri ragazzini di oggi devono sottostare a una pressione tremenda per sentirsi accettati. Questa ricerca di consenso poi va dalla politica fino al nostro mondo, quello artistico». Con X Factor tu hai avuto un osservatorio privilegiato... «Sì e dopo tre anni in cui ho fatto il giudice ti posso dire che purtroppo molti dei ragazzi oggi non cercano tanto di fare cose nuove, diverse, rivoluzionarie o dirompenti, cercano il consenso a tutto i costi. Per questo invece mi piacciono alcune cose della trap. Molti trapper cercano il risultato, quello sì: soldi, sesso, droga come dicono anche nei testi, ma non attraverso il consenso. Anzi, spesso attraverso il disgusto e in questo senso la trap si riallaccia a quello che è stato l’ultimo momento di rivolta giovanile che è stato il punk». E il tuo rapporto con la verità invece, a partire dai tuoi testi? «È cambiato radicalmente da quando, dopo aver letto un libro-intervista a William Burroughs, ho iniziato a utilizzare la sua tecnica del “cut-up”. Io venendo dal punk ho sempre pensato che la sincerità fosse tutto e quindi cercavo di parlare in maniera sincera di cose che mi erano successe e di persone reali». E invece con il cut-up? «Il cut-up mi ha permesso di non definire la verità a priori ma di arrivarci attraverso un processo». In cosa consiste? «Tzara tagliava delle parole e le metteva in un cappello, Burroughs mescolava parole dei suoi libri, io se decidevo per esempio di parlare di amore prendevo libri di meccanica uniti magari agli oroscopi, la Bibbia o Cronaca Vera. Questo taglia e cuci preso da diverse fonti ha una magia che è impossibile creare in modo artificiale e ti regala un punto di vista diverso da quello razionale». Un procedimento simile alla divinazione dell’I Ching, basato però sulla parola... «E che permette di usarla al massimo del suo potere, non solo per il suo significato, ma anche per il suono. E questa è una cosa potentissima che in Italia pochi utilizzano. Adesso non uso più quel metodo ma mi ha dato una libertà mentale molto più grande di quella che avevo prima».