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 2019  settembre 28 Sabato calendario

Storia degli spaghetti

Gli spaghetti al pomodoro sono il piatto simbolo dell’italianità in cucina, un autentico monumento della gastronomia patria. Ma l’irresistibile ascesa che ne ha fatto il cibo più celebre al mondo, insieme alla pizza, è stata lunga. E Massimo Montanari, storico dell’alimentazione, la ricostruisce in Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro ( Laterza), che aiuta a capire come sono nati pasta e sugo di pomodoro. Per un po’ i due ingredienti hanno camminato per conto proprio, anche perché il rosso tomate è arrivato in Europa con gli spagnoli dopo la scoperta dell’America. E la pasta ha percorso un cammino ramificato come un fiume ricco di affluenti. Che solo alla fine confluiscono e prendono lo stesso nome. Lo dicono le parole stesse che costituiscono la preistoria di spaghetti, rigatoni e tagliatelle. Dal risnatu mesopotamico, alla rishta persiana, alla lagana latina, antenata di lasagne e pappardelle. Ma sono paste fresche, lontane dalla nostra idea di maccheronità. A fare il passo decisivo sono gli arabi che, tra il IX e l’XI secolo, combinano il grano duro e l’essicazione dell’impasto, dando vita alla cosiddetta itriyya, da cui la parola tria, che in molte parti d’Italia, come Salento e Liguria, ancora identifica certi formati. Così quando le armate del Profeta occupano la Sicilia, l’isola diventa la capitale della pasta secca. Prodotta industrialmente ed esportata in tutto il Mediterraneo. I primi mangiamaccheroni sono dunque i siciliani. Poi la produzione si sviluppa in altre località costiere ( Sardegna, Pisa, Genova e Napoli). L’universo della pasta diventa via via più ricco. Dando vita a tecniche come il ferretto o la canna per essiccarla meglio. Nel ’400 compare la parola” spagho”. Un assist per gli spaghetti, che faranno gol secoli dopo. Un nuovo step verso il successo è l’incontro con il formaggio. Che ha letteralmente l’effetto del cacio sui maccheroni. All’inizio raccomandato dai medici, in quanto asciuga l’umido colloso della pasta, che viene stracotta. In seguito, però, pecorino, provolone e parmigiano diventano il tocco gourmet. È proprio grazie a vermicelli e fedelini che in Italia la forchetta si diffonde prima che in altri paesi europei. Ma la pagina decisiva è scritta con l’inchiostro rosso pomodoro. Alla base della cosiddetta” salsa spagnola”, entrata nel ’600 a far parte del repertorio di celebri cuochi come Antonio Latini, chef della corte vicereale di Napoli. Lentamente l’epicentro della cultura pastaia si sposta all’ombra del Vesuvio, facendo di Torre Annunziata e Gragnano le università dei maccaronari. Grazie anche alle innovazioni tecniche come il torchio, che trafila l’impasto, facendo risparmiare tempo e denaro. E grazie all’incontro con la pummarola che, conquista sia il favore dei gastronomi che dei medici, convinti delle sue proprietà digestive. Così una pioggia benefica di San Marzano cade sugli spaghetti rivoluzionando la nostra cucina. Ad assegnare ai partenopei il copyright del piatto simbolo del Belpaese è un ricettario anonimo del 1807, siglato M. F. e intitolato La cucina casereccia. Dove compare la ricetta dei “maccheroni alla napoletana”, cotti al dente, altra innovazione vesuviana, spruzzati di caciocavallo grattugiato e irrorati di un denso ragù di carne. Mentre nei vicoli il popolo deve accontentarsi di un sugo low cost, a base di passata soffritta nel lardo. A riprova del fatto che la dieta mediterranea non ha tabù ma solo virtù. Il resto lo fa il gastronomo partenopeo Ippolito Cavalcanti nel 1837, quando raccomanda di profumare il sugo con abbondante basilico, che arriva dall’India e dall’Africa. Lo spaghetto è servito. Morale della favola. L’identità alimentare e non solo, non deriva da un passato lontano, da una autoctonia immodificabile, ma nasce e prospera grazie agli scambi, alle migrazioni, alle contaminazioni. E la storia degli spaghetti ne è la prova. Perché quello che consideriamo il cibo più nostro, studiato da vicino si rivela uno straniero nel piatto. Ma così ben integrato da sembrare nato qui. A dimostrazione del fatto che la cosiddetta denominazione d’origine in realtà è sempre incontrollata.