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 2019  settembre 28 Sabato calendario

Intervista ad Amitav Ghosh

L’intellettuale indiano ha denunciato tra i primi la mancanza di romanzi non di fantascienza sulla crisi climatica Anche le migrazioni non sono estranee al riscaldamento globale che, sempre più, condizionerà la nostra realtà Siamo entrati mani e piedi nel catastrofozoico, l’èra del grosso guaio ambientale che abbiamo contribuito a creare. A negarlo a parole è rimasto giusto Trump e pochi altri incomprensibili bastian contrari. Nei fatti, invece, anche un’insospettabile categoria di sismografi, di solito molto sensibili, non ha rilevato il fenomeno: quelli in uso alla letteratura. La non fiction sbanca le classifiche se parla di cambiamento climatico. La fiction invece ne rimane attentamente alla larga. Lo scrittore indiano Amitav Ghosh si è interrogato tra i primi su questa colossale rimozione. Ne ha scritto in La grande cecità (Neri Pozza) e in qualche modo obliquo se ne occuperà ancora ne L’isola dei fucili, il romanzo ambientato tra i migranti che cercano salvezza in Italia che uscirà il 7 novembre. Perché il problema numero uno dell’umanità è così fragorosamente assente dai plot dei romanzi? «Per una serie di motivi. Il primo è che la narrativa contemporanea si concentra molto sugli individui, sull’interiorità, mentre il clima è un tema collettivo. Così ripiegata su se stessa la letteratura ha a cuore solo archi temporali che si esauriscono nella vita del protagonista, mentre la crisi del pianeta ha una scala cronologica molto più lunga». Non è stato sempre così. Durante la Guerra fredda, per dire, le preoccupazioni per il contesto erano molto più presenti in pagina... «Senz’altro. Ed è da poco uscito un libro che rivela come molta della letteratura americana di allora fu fortemente influenzata dallo Iowa Writers Workshop, una scuola di scrittura finanziata dalla Cia dove si mise a punto il mantra dello show don’t tell, mostra senza spiegare, che ha marchiato a fuoco lo storytelling statunitense. Considerato il committente, è chiaro che il conflitto fosse ben presente nei testi». Oggi invece la crisi del pianeta vira subito verso la distopia. E la fiction diventa science fiction, con la caduta di rango che il genere comporta: perché? «Parte della colpa è anche delle riviste letterarie importanti come la London Review of Books o la New York Review of Books che recensiscono ogni meritevole saggio sul tema ma mai i pochi ardimentosi che provano ad affrontarlo narrativamente. D’altronde quando romanzieri come Jonathan Safran Foer o Jonathan Franzen ne scrivono lo fanno non nella loro veste primaria ma in quella secondaria di saggisti. Lo stesso vale per Arundhati Roy, una scrittrice sublime e una donna con una forte coscienza politica. Ne ho parlato di recente con Annie Proulx che è profondamente sensibile al tema che appare di striscio in vari suoi libri ma mi ha confessato che non si sente di dedicargli tutto un libro. Perché? Non lo sa neppure lei ma è un problema serio, diffuso, che merita approfondimento». Lei ha scritto che il capitalismo genera desideri che tendono a peggiorare la situazione ambientale. Si può correggere il tiro? «Ci sono molte attività desiderabili, come spostarsi in aereo, le cui conseguenze non consideriamo abbastanza ma che ci presenteranno il conto. Serve un cambio culturale che ci spinga a rallentare e mi sembra che l’Italia, che ha inventato Slow Food, potrebbe essere più ricettiva di altri paesi. Il capitalismo resta un fattore importante della crisi del pianeta, ma non concordo con Naomi Klein o il fondatore di 350.org Bill McKibben per cui sembra essere quello principale. La nostra dipendenza dal petrolio, più ancor che per produrre a basso costo, è motivata dal desiderio di predominio dell’Occidente». Il già citato Foer, che ha a cuore l’argomento quanto lei, mi ha detto che il motivo per cui i romanzieri evitano di scriverne è che lo scioglimento della calotta polare è una storia terribilmente noiosa. È d’accordo? «Per niente! Intanto perché quello scioglimento ha una serie di effetti terribili per moltitudini di esseri umani e poi perché se sei un romanziere il tuo compito è rendere qualsiasi storia interessante. In quel modo Foer confessa il fallimento della sua immaginazione, tant’è che ha scritto un saggio». Ci fornisca una prova che è possibile scrivere grande letteratura sui cambiamenti climatici… «La prima, gigantesca, è Furore di John Steinbeck, solo che non siamo abituati a pensarlo in questi termini. La storia collettiva di un gruppo di persone che fugge dalla povertà indotta da condizioni climatiche avverse. Un libro amatissimo dai lettori, ma non dall’establishment letterario». Neppure il suo nuovo romanzo, però, si occuperà direttamente di emergenza climatica, o sbaglio? «Si occuperà di migranti che attraversano il Mediterraneo, flussi cui il riscaldamento globale non è estraneo. Il clima è, e sarà sempre più, parte inestricabile delle dinamiche che definiscono la nostra realtà, il rapporto tra umani e circostanze inanimate. In questo senso tratterà, inevitabilmente, di clima».