Corriere della Sera, 28 settembre 2019
Il vuoto di Boncompagni
Renzo Arbore ha ripercorso la carriera artistica del suo amico Gianni Boncompagni: «No, non è la BBC» (Rai2, giovedì, 21.15). Una serata divertente, ricca di repertorio, di testimonianze, di reduci, di familiari; a tratti anche un po’ funerea.
Una ventina d’anni fa, sul Corriere avevo scritto un dialogo immaginario fra Arbore e Boncompagni, l’uno paladino della tv d’autore, l’altro della tv di consumo. A Boncompagni facevo dire: «Nata da un pensiero anemico, è una tv che non merita la ricompensa di una ricerca o il coronamento di un’inquietudine. È solo vuoto, anche se vuoto impuro. Ma questa, caro mio, è la realtà in cui viviamo… Fra vent’anni le parti si invertiranno, “Non è la Rai” sarà considerato uno stracult e “Quelli della notte” una recita di poveri guitti, una goliardata».
Ripensando alla serata, non sono proprio sicuro che le cose siano andate così. Certo, il Boncompagni che abbiamo imparato ad amare era quello impresentabile, il mascalzone, il cinico. Quello che diceva che il suo metodo di lavoro era fare tv «presto e male», quello che teorizzava la tv come spazzatura, quello che ci ha aiutato a capire la natura ultima della tv generalista. Se in radio, in coppia con il sodale Arbore, era stato un grande innovatore («Alto gradimento» ha cambiato la storia della radio), in tv preferiva il disincanto, si accontentava di offrire le migliori soluzioni per impedire le peggiori.
Che cosa hanno in comune trasmissioni come «Pronto, Raffaella?», «Pronto, chi gioca?», «Non è la Rai» o «Macao», tanto per citarne alcune? Forse ben poco dal punto di vista linguistico, il minimo sindacale, ma esibiscono una forza rara: l’audacia di rappresentare la realtà in cui siamo immersi. Nella sua banalità, nella sua vacuità. Nessuno come lui ha saputo dare dignitosa veste estetica al vuoto. Ad arricchirlo con fantasia ed estro. Ma sempre di vuoto si tratta.