la Repubblica, 28 settembre 2019
Biografia di Zehra Dogan
Una coraggiosa artista curda sta facendo parlare molto di sé. Si chiama Zehra Dogan, ha trent’anni, è un’attivista. È finita in carcere per un disegno. Le hanno tolto tutto, le matite, i colori, i pennelli. Lei ha dipinto usando pomodori, spezie, sangue, capelli. Qualche mese fa ha esposto alla Tate Modern, a novembre verrà in Italia per una mostra al Museo di Santa Giulia a Brescia, durante il Festival della Pace. Le è stato assegnato il Freedom of Expression Award, lei lo ha dedicato a tutti «gli artisti, gli intellettuali e i politici finiti nelle prigioni turche». Ma a darle la fama è stato Banksy, ritraendola su un muro di New York. La sua storia merita di essere riavvolta dall’inizio. Zehra Dogan nasce nel 1989 a Diyarbakir, sulle sponde del Tigri, Kurdistan turco. Tre anni fa viene arrestata dopo aver raffigurato una città in fiamme. È Nusaybin, l’antica Nisibis, dove si è trasferita a vivere. Cercatelo in Rete quel disegno. In primo piano carri armati che sembrano giganti insetti preistorici. Sullo sfondo, fumo, bandiere turche sulle macerie. L’opera, che Zehra diffonde sui social network, trae spunto da una fotografia. Quando viene fermata, nel luglio 2016, è seduta in un caffè. La condanna definitiva arriva nel marzo 2017, è durissima: due anni e due mesi, è accusata di propaganda terrorista: «Sono prima stata portata in un carcere a Mardin per cinque mesi. Poi sono rimasta 17 mesi nella prigione di Diyarbakir, gli ultimi quattro a Tarsus. Mi hanno sottoposta a trattamenti degradanti: spogliata e perquisita, minacciata di morte. Mi è stato offerto di diventare una spia e mi hanno detto che in caso di necessità avrei potuto cambiare il mio volto con la chirurgia estetica». Oggi Zehra vive a Londra grazie a una residenza offertale dall’English Pen. La contattiamo via Skype, ha un sorriso luminoso. L’intervista prosegue per mail. Ci tiene a chiarire subito il quadro sociale e politico: «Il Kurdistan è una regione a cavallo tra Turchia, Iran, Iraq e Siria. Dopo il Trattato di Losanna del 1923 la nostra lingua e la nostra identità sono state ignorate. Per anni abbiamo lottato contro questa negazione, e per anni in queste terre non è mancato il sangue». Fino all’ultima tragedia, tra il 2015 e il 2016: «Il governo turco ci aveva promesso di avviare un processo di pace ma non è stato così. La mia terra, nella Turchia sud orientale, si è riempita di soldati e prigioni. Nusaybin è stata bombardata». Il pensiero va alle sue compagne di carcere. È per loro che racconta. Ne farà un libro e poi ha in progetto una graphic novel. Le chiama per nome. C’è Dilber Tanrikulu: «Ogni notte sentivo i suoi lamenti. Soffriva per una ferita da sparo nell’anca. Reagivo dipingendola, mettendola al centro dei miei quadri». C’è Fehime: «Mentre eravamo in carcere la sua città, Afrin, veniva bombardata. Sua figlia è morta, l’altro figlio è rimasto gravemente ferito. Non gliel’abbiamo detto, ma lei lo intuiva, di notte non riusciva a dormire». I quadri dal carcere di Zehra sono pieni di donne. Per lei sono simboli di pace: «Le guerre sono state inventate da un cervello maschile», dice. Le raffigura con grandi occhi, ne disegna gli organi interni come faceva Frida Kahlo. Ha dipinto su vestiti, lenzuola, fogli di giornale. Come pennello un ciuffo di capelli. Zehra ama le guerre di Goya e Guernica di Picasso: «Impedirmi di dipingere è stata la violenza più grande che ho subito. Per un artista equivale alla morte. Un giorno hanno trovato alcuni disegni e me li hanno confiscati». Lei è riuscita comunque a farli uscire da lì grazie all’aiuto del compagno giornalista Onur Erdem. Era in carcere da un anno quando Banksy le ha dedicato un enorme murale nel Lower East Side di Manhattan: si vedono una serie di sbarre su sfondo bianco, una di queste è una matita, dietro si affaccia Zehra. Da lì inizia la sua fortuna. E visto che quello che tocca Banksy si trasforma in oro, per Zehra si tratta solo di farne tesoro. Lei non manca d’iniziativa. È una giornalista, in passato ha lavorato presso l’agenzia stampa Jinha, diretta tutta da donne. Per proteggersi potrebbe scegliere l’anonimato, ma non vuole: «Mi sembrerebbe un tentativo di diventare una banale copia di Banksy. Lo ammiro, è una fonte di ispirazione, nella tesi di laurea ho parlato della sua opera Follow your Dreams. Imitarlo però sarebbe deleterio per la mia lotta. So che una firma potrebbe riportarmi in galera, ma non so fare diversamente». Scarcerata lo scorso febbraio, non si è fermata un attimo. A maggio è con una sua installazione alla Tate dove ha ricoperto il pavimento con vestiti, scarpe, pentole, piatti trovati tra le rovine di Nusaybin. All’entrata ha appeso una coperta bruciata che i curdi usavano per proteggersi dagli spari dei cecchini. C’è anche un tappeto colorato: «Rappresenta la mia gente, armeni, assiri, caldei, mhallami, curdi. Come questo tappeto siamo colorati. E come questo tappeto siamo andati in frantumi». Il 27 giugno ha organizzato una performance al Louvre di Parigi in difesa di Hasankeyf, città millenaria nel Kurdistan settentrionale, sfregiata dalla costruzione di una diga. Il 13 luglio l’ha replicata senza autorizzazione dentro il museo berlinese del Pergamon. Fermata dalla polizia, è stata rilasciata tre ore dopo. Intanto aspetta che in Turchia le cose cambino. È fiduciosa, le piacciono le manifestazioni di strada contro Erdogan in cui si canta Bella Ciao : «È diventato un inno, ne esiste anche una versione in curdo. Quella melodia è la fede nella fine di un’epoca. Continuerò sempre a credere che vedremo giorni migliori». Non sa dire quando, ma sa che prima o poi tornerà tra la sua gente: «Vorrei dipingere sui muri in rovina del Rojava, il Kurdistan siriano, e se avrò i soldi fondare una casa d’arte dove donne e artisti di tutto il mondo possano soggiornare».