La Stampa, 27 settembre 2019
I futuristi contro I promessi sposi
Se persisti a sposarti ti ritireremo la nostra solidarietà». Caspita che minaccia inquietante: il telegramma che annuncia ritorsioni in caso di matrimonio viene spedito nell’estate del 1913 a Gino Severini. Il 30enne pittore, uno dei più brillanti e geniali animatori del movimento futurista, è in procinto di convolare a nozze con Jeanne, figlia sedicenne del cosiddetto «Principe dei poeti», il simbolista Paul Fort. La temibile missiva che vuole minare la realizzazione del legame coniugale tra i due fidanzati è firmata da Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo e Filippo Tommaso Marinetti.
Al seguito degli artisti un po’ teppisti che cercano, indossati i panni di don Rodrigo, d’ostacolare i promessi sposi futuristi, si accoda una pletora di nomi famosi, da Guillaume Apollinaire – sostenitore del cubismo con André Salmon e Fernand Léger – a Max Jacob, a Valentine de Saint Point, ad Ardengo Soffici. I due fidanzati sono però appassionati e testardi. Nonostante le intimidazioni del gruppo futurista coronano il loro sogno d’amore il 14 agosto a Parigi.
In viaggio di nozze fanno una puntata a Milano. E vogliono festeggiare con Carrà, Boccioni e tanti altri ancora. Che però non demordono. Nel suo discorso in trattoria, simpaticamente, Boccioni evoca di fronte ai neosposini il «manifesto della lussuria» e l’inclinazione degli uomini alla sfrenata poligamia (di cui lui stesso sostiene essere un esempio vivente). Poi stila un lungo elenco di artisti che dopo essersi coniugati hanno subìto «imborghesimento, rimbecillimento e vigliaccheria». Deplora infine che un simile avvenimento (il matrimonio) abbia potuto realizzarsi in mezzo al loro gruppo «di giovani liberi e audaci e che disprezzano la donna schiava e fautrice di schiavitù». Poi la parola passa a Russolo il quale sostiene che il matrimonio è entusiasmante proprio in quanto portatore di «disaccordi e di frastuoni». Severini a queste bordate non sa reagire e perde i sensi mentre la consorte-bambina gli si getta addosso in lacrime. La coppia prosegue verso Cortona, paese natale del pittore. A ricostruire, adesso, tramite numerose cronache dell’epoca, le peripezie dei contrastati sposi, è Lino Mannocci in Scene da un matrimonio futurista. Gino Severini sposa Jeanne Fort a Parigi nel 1913 (editore Affinità Elettive). Il pittore e scrittore, che vive tra Londra e Firenze, dedica all’unione più bersagliata del secolo scorso oltre al bel libro anche una mostra (di dipinti ad olio e di bassorilievi) che si è inaugurata ieri a Firenze, al Museo del ’900.
Ma come mai i futuristi provavano tanto astio per questo connubio? Gino era stato folgorato da Jeanne quando la fanciulla aveva 14 anni e pure la giovane fu catturata da quel pittore così diverso dagli altri futuristi, che non usava un abbigliamento particolarmente eccentrico ma solo un calzino color lampone e uno verde pistacchio. Gli amici ricordano che Gino partecipava alle riunioni serali parigine, dove si leggevano testi letterari e poesie, ritoccando un quadro con i suoi ballerini di tango, mentre Jeanne, languida al suo fianco, si pettinava i lunghi capelli.
La coppia ottenne subito l’approvazione di Paul Fort che nel matrimonio vedeva il simbolo dell’unione Italia-Francia e dell’incontro tra cubismo e futurismo (alle nozze saranno presenti Léger e Apollinaire). Gli ostacoli che i futuristi disseminarono sulla strada dei promessi sposi nacquero dal rifiuto del matrimonio visto come istituzione priva di dinamismo, pantofolaia e borghese. Giacomo Balla non firmò il telegramma minatorio contro Gino e Jeanne dal momento che era sposato con prole. Gli avanguardisti trasgredivano però volentieri le regole: Salmon e Braque erano coniugati e qualche anno dopo lo furono Marinetti e Carrà, mentre Apollinaire era intrigato da una lunga convivenza. Con la sua avversione alle nozze di Jeanne e Gino, il futurismo metteva invece in pratica un’altra radicale novità: voleva essere un movimento politico totale, che condizionava tutta la vita dei suoi seguaci. Quando Severini, che a Parigi era stato il più esimio rappresentante del movimento futurista, ridotto in povertà, chiese una piccola cifra in prestito a Marinetti, lo scrittore gliela negò in nome del gruppo.
«Se io cedessi un solo istante ai miei istinti e ai miei affetti in meno di un anno rovinerei con me il Futurismo, il quale esige sempre maggiori spese». Così, ancora e sempre in nome del Futurismo-movimento politico che modella l’esistenza dei suoi aderenti, Marinetti spinse gli artisti a partecipare in prima persona al conflitto mondiale: «È necessario fare con energia la guerra, senza rievocare nostalgicamente la pace passata». Vi morirono ben dieci futuristi (tra cui Boccioni).
La frattura fra Severini e Marinetti avvenne alla fine della prima guerra mondiale, nel 1919, quando quest’ultimo dedicò la sua opera Democrazia futurista” «ai Fasci politici futuristi di Milano, Roma, Firenze, ecc. e all’Associazione degli Arditi». La strada era aperta: i mussoliniani fasci di combattimento, e poi la dittatura, fecero propria la totalizzante ideologia futurista che per la prima volta si era manifestata duramente con l’opposizione al matrimonio di Gino e di Jeanne.