ItaliaOggi, 27 settembre 2019
I campus cinesi contro Hong Kong
Un paese, due gioventù. Gli studenti universitari cinesi non apprezzano la rivolta che da tre mesi vede protagonisti i loro omologhi di Hong Kong. E il contrasto fra la calma ordinata della ripresa delle lezioni a Pechino e nelle altre città universitarie cinesi e il fermento dei campus nella ex colonia britannica, dove boicottaggi e sit-in si succedono senza sosta, dà l’idea della distanza crescente fra le nuove generazioni dell’ex Celeste impero.«Per risolvere la crisi di Hong Kong, occorre dare prova di fermezza», dice Filiz Liu, studentessa dell’Università di lingue straniere di Pechino, al quotidiano Le Figaro. «I manifestanti non sono che una piccola minoranza, manipolata dalla Cia». La tesi riprende alla lettera la linea adottata l’estate scorsa dai media ufficiali, che denunciano lo zampino di Washington ed è condivisa anche da Liu Hai Lin, studente di giornalismo: «Ci sono interferenze degli Stati Uniti e del Regno Unito, che vogliono che Hong Kong sia indipendente. Ma ciò è impossibile, l’isola dipende dall’industria cinese per la sua sopravvivenza».
I giovani cinesi fedeli al presidente Xi Jinping definiscono i loro coetanei di Hong Kong «bambini viziati», come sottolinea Shu Yin, studentessa di lingue. «Il loro modo di vita è così diverso. Qui siamo in un paese socialista, abbiamo ricevuto un’educazione diversa». Di diverso c’è sicuramente l’accesso all’informazione. Nella ex colonia britannica i manifestanti difendono con le unghie il libero accesso a Facebook, Twitter e Google, che essi vedono costantemente minacciato da Pechino. Per contro, nella repubblica popolare i giovani giustificano la censura in nome della stabilità politica. «A Hong Kong», osserva uno studente cinese, «sono esposti a troppe informazioni nefaste, diffuse dai media stranieri che deformano l’immagine della Cina. Mentre noi leggiamo sia le fonti cinesi sia le informazioni straniere. Quindi siamo meglio informati!».
Alla vigilia delle celebrazioni per i settant’anni della Cina comunista, il prossimo 1° ottobre, il capo dell’esecutivo di Hong Kong Carrie Lam, con l’appoggio del potere centrale, ha annunciato il 4 settembre il ritiro definitivo della contestata legge sull’estradizione giudiziaria che aveva innescato la miccia. Una concessione tardiva mirante a isolare i radicali e a sedurre i moderati, ma poco enfatizzata dai media ufficiali. Una discrezione voluta, secondo gli osservatori, per non dare l’impressione, agli occhi dell’opinione pubblica continentale, di aver ceduto alle proteste della piazza. Il regime brandisce la carota, ma non dimentica il bastone.