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 2019  settembre 27 Venerdì calendario

In volo sul Monte Bianco

vanityx
In volo il Planpincieux pare un Moby Dick in caccia. L’ultimo guizzo d’un predatore in agonia. Cacciato dal caldo, dall’acqua su cui non ha più presa, in uno scivolo inesorabile verso rocce arrotondate dall’erosione di quel che fu il ghiacciaio. Dall’elicottero questo mondo fragile d’alta quota è un imbuto color pane con in mezzo un rivo grande il doppio di quanto dovrebbe essere in questa stagione. Si chiama Montitaz, corre in una curva perfetta poi s’infila nel bosco e finisce giù, sulla strada fra le case di egual nome. Ed è questo il tragitto che farebbe il ghiaccio nel caso crollasse.Il ghiacciaio appare un mare d’onde fermate dal gelo e dall’alto i suoi crepacci s’intersecano come nel gioco dello «Shangai». È il caos, pare un mondo che nasce, ma la realtà è al contrario. Per millenni ha eroso le rocce da cui si è ritirato neanche mezzo secolo fa. Quel muoversi al rallentatore ha mulinato massi precipitati dalle Grandes Jorasses, dai crestoni di Rochefort e ha levigato musi giganteschi di roccia. Ci sono vene verdi, paiono muschi sul granito così liscio da sembrare di fantasia. Ma di favola qui non c’è traccia. Il pilota Marco Imparato muove con accortezza la cloche, fa fare un volo traverso all’elicottero e la mezzaluna che si apre a sinistra, contro gli enormi contrafforti rocciosi, non lascia spazio all’immaginazione.
I blocchi di ghiaccio
Un urlo gelido, una crepa anomala che aggira quanto rimane di una lingua che soltanto pochi anni fa s’infilava ancora verso il solco del Montitaz. E quando il velivolo si mette di punta, muso contro muso di quel Moby Dick, appare un gigantesco triangolo staccato e che ha accolto nel suo muoversi esagerato (quasi un metro al giorno) blocchi di ghiaccio, ridotti in schegge, frantumati. Venti metri di profondità in quella «bocca» larga 15. Il pilota lascia quel disastro di forme a incastro e vira a sinistra. Si alza di qualche decina di metri e appare un’altra faccia, come se il Planpincieux rappresentasse due realtà contrapposte. È da capogiro: da un lato verso sinistra per chi guarda dalla Val Ferret è il caos, il disordine agonico, a destra una lingua glaciale appena corrugata e in parte lisciata. Ben aggrappata a ciò che la sostiene. E in basso gli ultimi larici, nani per l’altitudine, fanno da sentinelle inutili a un canale di terra nera, un altro opposto rispetto al canale pallido, che non va oltre il beige tenue del Montitaz.
L’elicottero vola a 2.800 metri in mezzo a un ghiaccio sfasciato, tagliato dalla febbre della fine dell’estate. Dal portellone di destra appare il rosso del rifugio Boccalatte, piantato nella sicurezza dell’isola di granito. Cento metri più in alto, dove le nebbie discese poco prima dalle Jorasses, sono risucchiate verso l’alto, emerge ciò che non ti aspetti. E la conversazione con lo specialista di volo Luca Atzori Pennard, che fa da cicerone del labirinto di crepe, pinnacoli e improvvisi crolli, si blocca. Anche il fotografo Stefano Sarti smette i click. È un tempo sospeso da una voragine profonda 40 metri, larga almeno 30. Italo Calvino l’avrebbe inserita fra le sue «città invisibili». Le case sono blocchi candidi enormi divise da viuzze e hanno tetti ancora più bianchi, esili. Sono quanto resta delle ultime nevicate. Un crepaccio inatteso, che è il ponte fra quanto potrebbe essere ingoiato dalla gravità e da quella «corsa» inarrestabile e la calma d’un pianoro levigato. Ancora il contrasto che se fosse di suoni sarebbe tra il silenzio e il boato d’una valanga, del suo soffio che porta con sé il terrore della catastrofe.
La paura
Se fosse quello il punto di distacco, se quel ponte cedesse, allora il crollo non sarebbe più di 250 mila metri cubi, ma di un milione. Ed è lo scenario più tragico e più pericoloso anche per la Val Ferret. Allora i blocchi di ghiaccio potrebbero superare il canale beige, essere scaraventati ai lati, distruggere. Il pilota fa una leggera pressione sulla cloche e l’elicottero bianco e rosso s’affaccia sul pianoro. In fondo a questa sorta di cucchiaio il ghiacciaio s’impenna e sparisce nelle nubi che avvolgono il Dome di Rochefort, accanto alle Grandes Jorasses. Sulla conca sono scesi alcuni blocchi di granito. Frane di un autunno cominciato dimentico del freddo. La luce pare affievolirsi, tutto è ovattato da quelle nebbie che coprono Rochefort e Jorasses. Ma come il muso dell’elicottero si volta verso la Val Ferret, arrivano raggi di sole. Finiscono in quello sfascio di ghiaccio e colpiscono la lamiera nera del Boccalatte, rimandano lievi bagliori, poi come fari che scrutano i crepacci in quel dedalo vanno a colpirne l’anima, lame verde-azzurre. Sono i crolli appena avvenuti che hanno liberato strati profondi. E allora l’immagine dal volo radente e lento è quello di essere su un iceberg o fra i «penitentes» dei ghiacciai patagonici.
Il rientro
L’elicottero sale e di fronte ha il crestone vestito dal verde bruciato. È Testa Bernarda, dove quel verde nasconde un disastro risvegliato qualche anno fa, una frana persa in crolli remoti che ora fanno ferita all’imbocco della Val Ferret. L’elicottero punta contro la Brenva, altro ghiacciaio malato non distante dal traforo del Bianco, e quando posa i pattini davanti all’hangar della «Gmh Elicopters» di Entrèves il ghiacciaio di Planpincieux è un profilo dormiente.