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 2019  settembre 27 Venerdì calendario

L’Infinito di Leopardi

Non sappiamo esattamente quando Leopardi scrisse L’infinito. Certo, nel 1819, ma ignoriamo se nella primavera o (come credo più probabile), nell’autunno. Era stato l’anno più terribile della sua vita: mesi di disperazione, di quasi cecità, di impossibilità di pensare, di tentativi di fuga, di fallimenti, di atroce solitudine. Ma la facoltà di sdoppiamento di Leopardi era immensa. Malgrado la sventura che incombeva su di lui, nell’ Infinito non c’è la minima traccia di dolore: ma una dolcezza, una soavità, un distacco, un candore intellettuale che egli non raggiunse mai più nella sua vita. Quando scrisse L’infinito, credo che Leopardi volesse creare quella poesia moderna, malinconica e sentimentale che immaginava. Omero aveva rivelato ai lettori il “bello aereo”: lui avrebbe creato un testo di una sensibilità più ardita, filosofica, matematica, e insieme indefinita. Nella Vita abbozzata di Silvio Sarno, Leopardi aveva scritto: “Scontentezza nel provarle sensazioni [indefinite o infinite] destatemi dalla vista della campagna, come per non poter andar più addentro e gustar più non parendomi mai quello il fondo oltre al non saperle esprimere”. L’infinito, dunque, non aveva fondo, era una sensazione irraggiungibile; e quindi non era nemmeno possibile esprimerlo. Non sapeva quale strada seguire per portare alla luce l’infinito. Rousseau coltivava la dilatazione dell’anima, abbandonandosi a una espansione che si estendeva di continuo. Leopardi seguì la strada opposta. Aveva bisogno di avere attorno a sé, o davanti a sé, un limite, una siepe, un muro: doveva stare chiuso in un carcere immaginario, dietro al quale soltanto, come il prigioniero più desideroso, poteva perdersi negli spazi interminati. Quel giorno, Leopardi doveva avere l’infinito lì, a portata di mano, per cancellarlo e costruirsene un altro con la mente. Andò sul colle, e sedette per terra, chiuso attorno al proprio corpo, a ridosso della siepe: questo ostacolo non alto gli impediva lo sguardo su “tanta parte dell’ultimo orizzonte”. Rousseau aveva osato molto di più: la sua siepe, il suo carcere, erano l’intero universo, la totalità di Dio. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle” (v. 1). La situazione è duplice: la storia dell’ Infinito è ripetuta, accade sempre; è accaduta molte altre volte, e al tempo stesso soltanto ora, perché l’esperienza raccontata è unica. Accovacciato contro la siepe Leopardi ha un solo spazio dove i suoi occhi possano perdersi: la sommità del cielo. Dove “mira” dunque? Lassù in alto? Nulla avrebbe dovuto incantarlo più dei giochi mutevoli che la luce del sole faceva con le forme continuamente rinnovate e cangianti delle nuvole. Ma in quel momento egli non vuole badare agli spettacoli dell’indefinito: con una volontà ascetica, si proibisce qualsiasi fantasticheria. Egli guarda con occhi vuoti e ciechi, con occhi distratti e che non vedono, per accogliere la pura visione interna. Così concentrato in se stesso, abolita qualsiasi realtà esterna, la mente di Leopardi comincia a creare. “Io nel pensier mi fingo” (v.7): un latinismo che vale plasmare, dar forma, creare, dare origine, modellare. Significa probabilmente conoscere. Come un palombaro, Leopardi si immerge nella propria profondità. Leopardi sapeva che la sua impresa era quasi impossibile. Noi siamo capaci soltanto dell’indefinito e di concepire indefinitamente. Non comprenderemo mai L’infinito se dimentichiamo questo fatto. Quel tentativo, che Leopardi fece guardando con occhi vuoti e ciechi, è il disperato azzardo, la prova suprema di pensare qualcosa che, a rigore, è quasi impensabile. Il suo tentativo è ancora più arduo, giacché egli si sforza di cogliere una goccia di infinito puro. Con una sovrumana tensione, Leopardi abolisce dalla sua mente il flusso del movimento, ogni idea dell’eterno e del tempo. Per cogliere una goccia pura di infinito – la cosa più remota, estrema, rarefatta ed essenziale che l’uomo possa forgiare, deve immaginarlo vuoto, immobile, sovranamente silenzioso. Tutto lascia credere che, presso la siepe, o tornato a casa, Leopardi avesse in mente un famosissimo pensiero di Pascal: “vedo questi spaventosi spazi dell’universo che mi rinchiudono, e mi trovo fissato a un angolo di questa vasta distesa, senza sapere perché sono collocato in questo luogo piuttosto che in un altro, né per quale motivo questo poco di tempo che mi è dato da vivere mi sia assegnato in questo punto, piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi segue. Non vedo che infinità da tutte le parti; esse mi rinchiudono come un atomo”. Pascal ebbe terrore perché proprio nel cielo, dove gli antichi gli avevano insegnato a cogliere il segno di Dio, trovò l’assenza paurosa di Lui. I timori di Leopardi assalgono il cuore, la parte più fragile del suo essere: “ove per poco / Il cor non si spaura” (vv 7-8). Egli è abituato all’assenza di Dio, ma si sente portato al di sopra della condizione umana, in una quiete così profonda, che egli non aveva mai sperimentato. Non riesce a sopportare l’impossibile pensiero dell’infinito; e riflettere senza essere avvolto dal passato, dal presente, dal futuro, dall’eterno deve sgomentarlo. Se ci è lecito congetturare intorno a una poesia, dove tutto è aperto alla congettura, egli chiude nella mente quella goccia di infinito per un istante: poi abbandona quel culmine, lasciandosi alle spalle “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”, anche se il fruscio del vento non lo risvegliasse. Pensava che solo l’infinito potesse adempiere il desiderio di piacere dell’uomo; e, quando riesce a concepirlo, se ne ritrae rabbrividendo. In questo momento, a metà del verso 8, la poesia viene interrotta da una violenta cesura. Qualcosa di esteriore si sostituisce improvvisamente alla condizione puramente mentale, che dominava i versi 4-8. Il vento, che fino allora aveva taciuto, stormisce. Se finora avevamo contemplato una pura visione mentale, ora un altro senso, molto più fisico, l’udito, si accampa in primo piano. Con il vento risorge il limite, il “qui”, il “questo”, che Leopardi aveva abolito col pensiero. La voce del vento cancella la concentrazione assoluta della mente, allontana l’infinito che aveva creato, e fa rinascere la realtà esterna. Mentre la realtà rinasce, rinasce il tempo. Il rumore, ugualmente uniforme e monotono, del vento tra le fronde, permette al pensiero di Leopardi di abbandonarsi alle sue rêveries temporali. Leopardi si sforza di definire il contenuto del flusso di sensazioni al quale è sottoposto. Egli va comparando (v. 11): il suo pensiero è fluido come una rêverie, ma possiede una estrema precisione mentale. L’intelligenza di Leopardi diventa passiva: accetta qualcosa di esterno; e sorgono davanti a lei realtà che già esistevano, che egli non aveva creato – l’eterno, il passato, il presente. Se, all’inizio l’immaginazione sovrana aveva creato dal nulla l’impossibile infinito, ora qui la memoria ha una forza egualmente sovrana, ricordando ciò che non è possibile ricordare, e disponendo davanti a noi tutte le dimensioni del tempo. Come dirà tra poco, forma un’immensità-mare, che sostituisce l’infinità degli interminati spazi, dei sovrumani silenzi e della profondissima quiete. Nella mente di Leopardi si intrecciano le sensazioni più diverse: l’infinito e il reale, il silenzio e la voce del vento, l’eterno e il tempo, il passato e il presente. A questo punto, almeno in apparenza, ogni controllo della mente è perduto. L’immensità- mare, nella quale egli annega e naufraga, è l’“indefinito”, oltre il quale l’uomo non può giungere. Tutta la poesia è un gioco di corrispondenze e di contrapposizioni. All’inizio, c’è il regno del questo ( quest’ermo colle, questa siepe ), il luogo del qui e del limite; e negli ultimi tre versi ci sono altri due questo: quest’immensità, questo mare, che sono al contrario il luogo dell’illimitatezza e dell’infinito. I due opposti vengono uniti sotto il segno dello stesso aggettivo determinativo. Nei primi versi, l’io (v. 7) – la totalità della persona, che comprende in sé il “pensiero” e il “cuore” – finge, crea nel pensiero gli interminati spazi, i sovrumani silenzi e la profondissima quiete. Negli ultimi versi c’è un’analoga prossimità: il pensiero “annega” nell’immensità; e il naufragio è dolce all’io che appare nell’ultimo verso. Questi due aspetti della persona – io e pensiero – sono entrambi presenti nei momenti estremi, e supremi, della vicenda intellettuale di Leopardi. Per la prima e ultima volta nei Canti, Leopardi usa i verbi s’annega e naufragar. In luoghi simili dello Zibaldone aveva impiegato il verbo perdersi. Annegare, naufragio, perdersi, insieme a immensità, mare, annullarsi, dissolversi, fondersi, sono parole tipiche del linguaggio mistico cristiano e islamico, e della scrittura di Rousseau. Non so se Leopardi comprendesse di avere impiegato le parole principali di questo linguaggio. Credo di sì, a causa dell’assoluta unicità di s’annega e naufragar. Ma quella di Leopardi non è una mistica, o è una mistica dove l’oggetto, invece di Dio, è la rêverie, la vita interiore dell’individuo. Il cerchio si chiude. La poesia, che aveva cominciato orgogliosamente con la creazione di un infinito mentale, si conclude con il naufragio dell’io pensante nel mare vago e ipnotico delle associazioni. Se ci mettiamo dal punto di vista dell’io pensante, tutto finisce con un disastro: l’io annega nel flusso delle associazioni. Ma questo disastro è il supremo trionfo, la suprema vittoria. È la dolcezza: l’estasi; una gioia che colma la mente sino all’orlo, davanti alla ricchissima molteplicità delle sensazioni e alla felice morte dell’io. Il pensiero, che aveva voluto attingere all’infinito, ha conosciuto un brevissimo trionfo; e subito l’amarezza della paura. Per Rousseau come per il giovane ancora per poco rannicchiato insieme a noi accanto alla siepe, la vera beatitudine sta nell’abbandono passivo alle immagini, che qualcosa lieve come una ragnatela – appena uno stormire di vento tra le foglie – risveglia dal nulla e manda a invadere dolcemente la nostra anima quieta.