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 2019  settembre 26 Giovedì calendario

Ricordo dell’Ora di Palermo

Mi telefona Sergio Buonadonna, mio ultimo capocronista, oltre che amico di tante serate speciali, in giro per concerti rock e teatri all’aperto delle calde, lunghe notti estive palermitane. «Sai, Marcello, stiamo preparando un libro sull’Ora. Abbiamo pensato a te per un pezzo...». E mentre Sergio continua a spiegare che articolo vorrebbe, quanto lungo, impostato come, aderente a un titolo che ha già in testa e ripete tra sé e sé, come fosse un passo musicale, ci ritroviamo, quasi senza accorgercene, nella nostra redazione. Nello stanzone di cronaca dove arrivavamo tutti la mattina un po’ prima delle 7.
Regnava sempre silenzio fino alle 8, prima che i cronisti venissero gettati per strada a cercare notizie o spinti a un primo giro di telefonate alle fonti. Poi, nelle quattro, cinque ore – se per la prima o la seconda edizione – in cui il giornale prendeva corpo, era un’accelerata senza fine, con una spinta sempre più forte che veniva dal direttore, dal suo tavolo, dalla poltrona in cui scivolava fino a scomparire, dal portacenere su cui ammucchiava le sue mille sigarette fumate solo a metà.
La bomba in tipografia
Sebbene fosse l’unico ad avere una stanza solo per sé, Vittorio Nisticò non amava lavorare da solo. Considerava il giornalismo una forma di artigianato pregiato, aveva attorno, vicini, proprio come un falegname, un fabbro o un tornitore, i ferri del mestiere: le forbici per tagliare le foto, le matite rosso-blu con cui disegnava le pagine, un pezzo di zinco portafortuna del cliché di una foto, e il telefono, l’attrezzo principale che considerava indispensabile per restare in contatto con il mondo. Si considerava un allenatore «di tre generazioni di cronisti che amavano giocare in serie A». E costruire una squadra, mettendo insieme le formazioni più impensabili, lo divertiva. Come quando, chiedendoti un’intervista, ti suggeriva le domande. E immaginandosi risposte reticenti o mute – succedeva spesso nelle interviste ai siciliani – simulava contraccolpi, finte, mezzi falli: «Se si presenta così, tu ribattigli così. E solo alla fine, cala l’asso. Insomma, se riesci, tira in porta!». Lo diceva letteralmente.
Lo schieramento messo su nel 1958 per la prima grande inchiesta sulla mafia, subito accompagnata da una bomba fatta esplodere nella tipografia dell’Ora, era stato il primo esempio del lavoro di squadra immaginato da Nisticò. Giornalisti investigatori, frequentatori di bassifondi e corridoi di caserme come il «maestro» Enzo Perrone, messi a fianco di scrittori e intellettuali come Marcello Cimino e Giuliana Saladino, di inviati di lunga lena come Felice Chilanti e Gilberto Nanetti (il creativo che disegnò i boss a fumetti), e l’avvocato del giornale, mio padre, Nino Sorgi, per valutare ogni conseguenza della materia scottante che doveva essere pubblicata.
L’assortimento di uomini e donne, buoni e cattivi caratteri, «biondini» (cioè precari) e «mostri sacri» – le grandi firme, coi loro tic -, la contaminazione di nevrosi e passioni, personalità e generi: era questa la formula giornalistica dell’Ora. La cronaca nera come fatto politico di una città sovrastata da violenze e minacce mafiose. L’intuizione e la fantasia come chiavi di lettura, l’inverosimile che si faceva reale, l’espressione delle facce ritratte nelle foto, lo stupore, le delusioni, le sfide combattute, vinte e perdute. Ecco cosa, nel progetto del direttore, doveva trovar forma nel teatrino dei personaggi del giornale, tra soggetti assai differenti, amici e avversari secondo la partitura del giorno, che dovevano fare scintille, litigare e rappacificarsi, sfottere molto, saper ridiscutere anche le convinzioni più solide.
L’ufficio salotto
L’altro polmone da cui L’Ora attingeva erano gli ospiti, italiani e stranieri, che al pomeriggio, a giornale chiuso, affollavano l’ufficio di Vittorio, trasformato in salotto. I fratelli Panagulis esuli dalla Grecia dei colonnelli e i primi ambasciatori di Gheddafi, l’inquieto dirimpettaio della costa meridionale siciliana, introdotti dalla responsabile degli esteri Kris Mancuso e scelti nella sua fitta rete di contatti internazionali. Luchino Visconti e Claudia Cardinale venuti a girare Il Gattopardo. Leonardo Sciascia, silenzioso, appartato e avvolto nel fumo delle sigarette. Michele Perriera, non solo regista del suo teatro d’avanguardia, ma trasformato in astrologo, perso tra le effemeridi dei lettori. E Franco Rosi, a Palermo per preparare il suo Lucky Luciano, incantato dalla definizione coniata per il vecchio boss siculo-americano da Lillo Roxas, piccolo e geniale editore amico dell’Ora: «Uno che organizzava trentamila puttane a New York non poteva essere solo un bandito!».
Noi dell’ultima generazione dell’Ora di Nisticò siamo stati indubbiamente i più fortunati. I grandi personaggi del giornale li abbiamo visti al lavoro, osservati, ascoltati, imitati. Ci siamo presi dei gran cazziatoni da levare la pelle, come quando il vicedirettore Mario Farinella mi mandò a sentire le voci degli studenti quel 16 marzo del sequestro di Aldo Moro, lesse il mio pezzo con tanti che dicevano che non gliene fregava niente, lo stracciò, lo buttò nel cestino, e prese spunto per un suo commento intitolato «Serietà», ciò che mancava ai ragazzi di Palermo. Ma il mestiere vero ce lo insegnarono gli esponenti della seconda generazione, quelli che avevano quarant’anni quando noi ne avevamo venti o poco più.
Salvo Licata aveva un secondo amore, dopo il giornale, per il sottoscala del cabaret «I Travaglini», dove passava le notti a suonare e a cantare. «Un uomo di penna e di chitarra», lo battezzò Nisticò. Mario Genco è stato l’autore delle inchieste sul potere nascosto, sui corpi separati, sui giovani che scoprivano la droga e si giocavano la vita. La sua stagione di capocronista rimase memorabile per i suoi titoli estrosi. Tipo, per due ladri in fuga che si erano buttati a mare: «Ladri nuotano, poliziotti remano e vincono». E un giorno che il caporedattore Etrio Fidora, dopo averlo richiamato al telefono a una maggiore sobrietà, raggiunse minacciosamente la sua scrivania, Mario, per tutta risposta, si chiuse in un armadio.
A loro, noi che abbiamo lasciato L’Ora, abbiamo fatto carriera, viaggiato per il mondo, raccontato le guerre interne e internazionali, dovremmo dire grazie ogni giorno. Siamo in tanti, tra quelli che ancora lavorano, hanno smesso o se ne sono andati. Tra Corriere della Sera, La Stampa, Repubblica, Il Sole 24 Ore, L’Espresso e Panorama, tra Rai e Mediaset, tra Torino, Milano, Venezia, Udine, Genova, Livorno, Roma, Mosca, Beirut e Gerusalemme, siamo sparsi ovunque. Anche per questo è stato bello ritrovarsi per ricordare il nostro vecchio maestro.