La Stampa, 26 settembre 2019
Silvio non è poi così amico di Dell’Utri
L’errore sta nel manico, cioè nel credere che Silvio Berlusconi provi un senso di dovere morale dettato dall’amicizia. E dunque il settantottenne Marcello Dell’Utri abbia il diritto di pretendere da lui una testimonianza processuale che forse lo salverebbe da ulteriori 12 anni di condanna, oltre ai 7 per cui già si trova in carcere. Scenderà l’ex premier il 3 ottobre a Palermo per scagionare il suo vecchio braccio destro a Publitalia, il vero artefice delle sue fortune politiche in quanto mise in piedi dal nulla Forza Italia permettendogli di vincere le prime elezioni un quarto di secolo fa? Lo scopriremo all’ultimo momento. I suoi avvocati non escludono nulla, nemmeno che con un colpo di teatro il Cav si presenti in aula per svelare tutti i misteri della trattativa Stato-mafia; però intanto Ghedini e Coppi hanno apparecchiato con abilità le carte, in modo da consentire al loro assistito di sfilarsi con la scusa che è indagato a Firenze su un reato analogo, e qualunque cosa dicesse su Dell’Utri potrebbe venirgli imputata nell’indagine fiorentina. Insomma: tutto fa ritenere che giovedì prossimo a Palermo di Berlusconi non si vedrà traccia. E che la speranza riposta in lui dalla famiglia Dell’Utri resterà delusa.
Ritorno al passato
Ma lo sbaglio sta appunto qui, nel ritenere che oltre alla complicità tra i due ci fosse amicizia, quel legame vero e sincero dove le convenienze non contano più e ci si tuffa in aiuto dell’altro spesso contro ogni calcolo. Quello di Berlusconi è chiarissimo: presentandosi in aula per difendere Dell’Utri, subirebbe un danno di immagine. Lui che ama immaginarsi come “padre nobile” della politica, forse addirittura prossimo presidente della Repubblica, dovrebbe rispondere a domande scomode sul suo passato remoto, su vicende non sempre commendevoli affogate nei vuoti di memoria collettivi. La tormentata storia giudiziaria di B. tornerebbe sotto i riflettori, senza peraltro che Dell’Utri ne possa trarre sicuro giovamento. Anzi, probabilmente, la testimonianza di Silvio sarebbe superflua: prova ne sia che nel giudizio di primo grado nessuno l’aveva richiesta, nemmeno i giudici.
Eppure, se ci fosse vero sentimento, tutti questi ragionamenti conterebbero zero. Quando è in ballo l’etica del cuore, si fanno perfino le cose più inutili, i gesti meno scontati, i tentativi senza alcuna speranza. All’occorrenza si sale in piedi sul banco, come nel film “L’attimo fuggente”. Tutte forme di generosità che però non fanno parte del repertorio berlusconiano. Quando l’"amico” era già in cella e stava male, c’era una processione di parlamentari in visita per accertare lo stato di salute, e non solo gente di destra come Daniela Santanché o Amedeo Laboccetta. Ci andò una volta perfino il referente renziano in Sicilia, Daniele Faraone. Invece Silvio mai. L’idea che Marcello fosse finito nel mirino della giustizia anche un po’ a causa sua, magari soprattutto per questo, non pare averlo turbato. Neppure un salto nel carcere di Parma, un’ora e mezzo di auto da Arcore. Berlusconi sostenne che i magistrati glielo impedivano, visti i trascorsi. Anche lì, avrebbe trovato una folla di cameraman e cronisti. Manifestò invece la propria riconoscenza nella maniera che meglio gli riesce, tirando fuori il portafogli. Dalle varie indagini spuntarono 3 milioni di euro alla moglie e ai figli dell’antico sodale, e poi altri 15. Si favoleggiò della villa comasca di Dell’Utri che Silvio aveva comprato sborsando, pare, 21 milioni. La procura di Milano sospettò addirittura un’estorsione ai suoi danni. Ma secondo altri quei soldi erano pochi, perché l’amicizia non si compra al mercato. Tutt’al più il silenzio. —