la Repubblica, 26 settembre 2019
La Camera azzurra di Simenon
Uno che ha letto tutto di Simenon forse non esiste al mondo, gli sarà scappato qualcosa di sicuro, nella sterminata produzione. Ma chi vorrebbe leggere tutto George Simenon esiste. L’Infinito l’ha scritto Leopardi, ma un’idea di infinito viene trasmessa dalle opere dello scrittore belga, naturalizzato parigino, navigatore della Parigi della notte, frequentatore dei cronisti di nera e delle giovani eredi in carne e ossa della Nanà di Émile Zola. Simenon ha saputo trovare la forza e la voglia sia di godersi la vita, senza farsi sconti, sia di scrivere dannatamente i gialli incentrati sul commissario Jules Maigret e i “romanzi- romanzi”, ai quali teneva moltissimo. Gli permettevano di lottare corpo a corpo, come facevano gli antichi greci, o il grande Shakespeare, con il destino. Come capita al protagonista della Camera azzurra. All’improvviso, nel letto dopo l’amore, gli arriva la domanda fatale: «Ti piacerebbe passare con me il resto della tua vita?». Come si risponde a questa domanda? Simenon dice che l’uomo «registrava automaticamente le parole di Andrée senza prestarvi una particolare attenzione. Non più di quanto facesse con le immagini e gli odori. Come poteva sapere che avrebbe rivissuto quella scena decine e decine di volte? E sempre in uno stato d’animo diverso, da un punto di vista diverso. Per mesi si sarebbe sforzato di ricordare ogni minimo dettaglio. Non tanto di sua spontanea volontà, ma perché altri lo avrebbero costretto a farlo». E il lettore è “dentro”, ormai è prigioniero dell’autore, proprio come accade in questa storia afosa e dolorosa dei due amanti, perché Georges Simenon via via squaderna ipotesi, scelte, drammi che riguardano “il resto della vita” dei personaggi di carta, ma anche delle persone in carne e ossa. Ai lettori non resta che ricordare pagina dopo pagina immagini e odori, stati d’animo, minimi dettagli. Si tende a leggerlo e rileggerlo, questo autore, ridendo quando si scopre magari in ritardo che il commissario Maigret è nato nel villaggio immaginario di Saint-Fiacre, e il fiacre altro non è che la vettura pubblica, un tram a cavalli. Robusto, taciturno, consapevole delle amarezze della vita, il poliziotto plebeo entra nella storia della letteratura, del cinema, della tv con Pietro il lettone. È una vicenda di nebbia, barconi, contrabbando, marinai. Di locande. La trama non è ricca di colpi di scena, come vorrebbero gli esagerati cultori del thriller, ma sembra di stare seduti allo stesso tavolino di Maigret, di coltivarne i dubbi, di intuire, attraverso il fumo degli avventori, perché si possa morire con la testa spaccata. Dopo il caso di Pietro, uscendo con il cappotto pesante dalla casa di boulevard Richard-Lenoir, dove Louise gli cucina c omme il faut e gli porta le tisane quando è malato, Maigret indagherà senza sosta tra la mala parigina e le famiglie borghesi. Troverà assassini mentre sta in vacanza e mentre si gode un piatto in una brasserie. E mentre Maigret, tra informatori e pozze di sangue, bicchieri di vino e di birra, stufati e pedinamenti, interrogatori e trappole, percorre una carriera invidiabile, George Simenon prosegue a passo sicuro in cerca della perfezione narrativa. «Era magra, e a me le magre non piacciono; era bruna bruna, e io preferisco le bionde. Pareva la copertina di un rotocalco, ecco». La descrizione sta dentro uno dei più celebri e maturi “romanzi romanzi”, Lettera al mio giudice. Sarebbe stato scritto (il condizionale è dettato dall’ammirazione) in appena dieci giorni. Data di pubblicazione, 1947. Simenon racconta il movente di un femminicidio attraverso la voce di un rispettabile medico di campagna, Charles Alavoine, marito infelice di Amande. Incontra Martine, apparentemente indifesa, in realtà troppo esperta di vita per uno come lui. Se ne innamora e si perde, tra felicità e somma disperazione. Comincia a picchiarla, a punirla per le sue assenze e l’irreparabile si addensa all’orizzonte senza che ci sia una sola parola di troppo, senza il barocco che inquina molta prosa mainstream e di genere: «Nessuno avrebbe mai pensato che un giorno sarei diventato quel che si chiama un delinquente. In altre parole, si può dire che io sia un delinquente occasionale». Ma c’è chi dice, e non sono pochi, che Simenon non sappia raccontare bene le donne, e cioè che in qualche modo le confini dentro una serie di luoghi comuni e di ruoli. C’è anche chi trova un’assonanza tra questo tipo di scelta narrativa e la vita sessuale e sentimentale dell’autore, che notoriamente «non se ne perdeva una». Di Simenon è stato detto tutto e il contrario di tutto, tantissimi l’hanno citato, copiato, studiato, recensito, criticato, parecchi lo definiscono un misogino. Eppure, solo un uomo che ama e conosce le donne può dare voce alla coraggiosa e patetica Vedova Couderc, innamorata dell’amore, così tanto da finire malissimo quando ospita a casa sua un giovane appena uscito dalla galera. O a Bébé Donge, il veleno dell’anima che diventa veleno da boccetta con teschio e tibie. O Alice, la ragazza che il tragico signor Hire spia dalla finestra. Simenon ha creato, in realtà, figure femminili indimenticabili. Parla di noi, delle nostre gelosie, manie, vigliaccherie, crudeltà. Pardon, no, non delle nostre, certo. Noi siamo “sani": di quelle di qualcuno che conosciamo, o magari riconosciamo.