la Repubblica, 26 settembre 2019
Intervista a Murakami
Haruki Murakami non è di quegli scrittori che si prestano volentieri alla promozione dei loro libri. Nel suo caso, del resto, non ce n’è nemmeno bisogno, considerando che la pubblicazione di una nuova opera con la sua firma è un evento di per sé e il libro schizza subito in testa alle classifiche di vendite. Che si tratti della trilogia 1Q84 o del recente L’assassinio del commendatore (sempre tradotti in Italia da Einaudi), tutti i suoi romanzi vendono milioni di copie. Lo scrittore giapponese più letto al mondo, spesso citato tra i favoriti al Nobel per la letteratura, distilla le sue parole con il contagocce e preferisce tenersi ai margini della vita letteraria e mediatica. In questo modo, dice, preserva la “concentrazione” necessaria per l’elaborazione delle sue opere. Ci dedica un’ora di discussione nell’ufficio di Wajdi Mouawad, il direttore del Théâtre de la Colline a Parigi. Sa dirmi a che epoca risale il suo desiderio di scrivere? «Quando ero bambino, le cose che contavano di più per me erano i gatti, la musica e i libri. In quest’ordine. Ma non avevo nessun gusto particolare per la scrittura, anche se a scuola avevo bei voti nei temi. Essendo figlio unico, la lettura mi consentiva di tenermi occupato, aveva un posto importante nella mia vita. Ma non importante quanto la musica, che è la prima passione che ho abbracciato quando sono arrivato all’età adulta, aprendo un locale di jazz a Tokyo, il Peter Cat, nel 1974. Sentivo fortemente il desiderio di creare, ma pensavo di non esserne capace, di non avere nessun talento particolare. Poi, a 29 anni, improvvisamente, mi dissi che forse ero capace di scrivere. Fu una vera e propria epifania! E da quel giorno, non ho mai smesso». La leggenda che sostiene che l’epifania sarebbe avvenuta durante una partita di baseball. «È la verità. Andai a vedere una partita di baseball vicino a casa mia, e tutto a un tratto mi dissi: “Posso scrivere”. Era la prima partita della stagione e il battitore colpì la palla: quando sentii il rumore della palla che batteva contro la mazza, mi dissi che forse ero in grado di scrivere». Secondo lei, questa rivelazione aveva a che fare con la bellezza del suono o con la perfezione del gesto del battitore? «Aveva a che fare con tutte queste cose insieme. Eravamo in primavera, faceva bel tempo, l’ambiente generale, all’interno di quel grande stadio, era propizio alla felicità. E poi, dentro a tutto questo, c’è stato il colpo, il rumore. Tra l’altro stavo bevendo una birra. Forse anche questo ha avuto la sua importanza! Per prima cosa mi dissi che dovevo comprare una penna, perché nel mio lavoro al Peter Cat non avevo l’abitudine di scrivere. Mi procurai una stilografica e mi misi al lavoro all’alba, sul tavolo della cucina. Quei momenti rimangono dei bellissimi ricordi per me». Spesso il romanzo più difficile da scrivere non è il primo, gli scrittori dicono che i problemi veri arrivano con il secondo. È quello che è successo a lei con “Flipper, 1973” (pubblicato in “Vento & Flipper”, Einaudi)? «No, scrivere Flipper, 1973 è stato facile. Le difficoltà sono arrivate con il terzo romanzo. Dovevo inventare una forma molto diversa. È così che è venuto fuori Nel segno della pecora. Inoltre, dopo Flipper, 1973, avevo deciso di vendere il mio locale di jazz e quindi potevo dedicarmi a tempo pieno alla mia attività di scrittore. Fino a quel momento conducevo una vita prevalentemente notturna, con orari sfasati. Dopo aver venduto il Peter Cat, ho cominciato ad alzarmi presto, ho smesso di fumare, ho cominciato a fare jogging… È stata una vera rivoluzione». Pensa che la sua letteratura ne abbia beneficiato? «I primi due romanzi mi avevano permesso di prendere fiducia in me, ma avevo la sensazione di poter scrivere ancora meglio, per questo dovevo concentrarmi su quel lavoro. I miei amici erano molto contrari alla vendita del locale, perché abbandonare un’attività che funzionava bene per puntare tutto sulla letteratura rappresentava un rischio. Ma io avevo voglia di raccogliere questa sfida che lanciavo a me stesso: ero convinto di poter progredire. Avevo l’impressione, quando lavoravo al locale, di rendere solo al 20-30 per cento delle mie possibilità. Da quell’epoca vado a letto tutte le sere alle 21 o alle 22, e mi alzo tutte le mattine alle 5. Corro molto, è diventato indispensabile per me, e partecipo tutti gli anni a una maratona». Questa igiene vita sana è necessaria per l’attività creatrice? «La mattina comincio a scrivere molto presto, prima che la vita si risvegli intorno a me. Penso che il lavoro di uno scrittore sia andare a fondo della propria coscienza. È un lavoro solitario che richiede molta concentrazione. Se c’è rumore intorno a me, non ci riesco. Certi autori, come Hemingway, sono stimolati dagli eventi esterni: la guerra, una corrida, una battuta di caccia… Per me è il contrario». Nel suo recente “L’assassinio del commendatore” mette in scena questo percorso per andare a cercare l’ispirazione nel profondo di se stessi. Questo romanzo è una riflessione sulla creazione artistica? «Quando scendi in fondo alla tua coscienza vedi delle cose, senti dei rumori, e raccogli tutto questo materiale per riportarlo in superficie. Una volta che disponi di questi elementi, è sufficiente strutturarli. Io stesso non so come si fa questo lavoro, è qualcosa di misterioso. Se scrivi seguendo la logica, non è più una storia che si racconta, ma una serie di affermazioni. Una storia è bella perché non è spiegabile. Nella letteratura giapponese esiste da tempo un filone personale, che esprime sentimenti molto intimi. La mia opera, al contrario, rientra nel filone dell’immaginazione, è semplicemente lo sviluppo dell’immaginazione. Quando scendo in profondità nella mia coscienza, quando raccolgo gli elementi che ho trovato lì dentro per raccontare una storia, e quando lei, leggendo il mio libro, prova un sentimento di empatia, sappiamo con certezza che esistono delle emozioni comuni fra noi due, nel profondo delle nostre coscienze. Ed è l’emergere di questo legame fra autore e lettore la cosa che mi interessa». Da un po’ fa il dj alla radio giapponese. Mette ogni tipo di musica? «Soprattutto rock, ma anche un po’ di jazz. Porto i cd che ho a casa, o i miei dischi in vinile. Metto quello che mi pare e dico quello che mi pare. Da un po’, da quando ho settant’anni, mi sono reso conto che forse è una bella età per sperimentare cose nuove. Ho capito che non bisogna formalizzarsi troppo né essere troppo rigidi, e che posso dedicarmi a quello che mi va di fare senza che questo nuoccia alla scrittura. È mia moglie che mi ha detto che mi ci vedeva molto a fare il dj. Allora ci sono andato». Ha altri desideri come questo? «Non ho idee precise, ma se si presentano le occasioni… C’è una cosa che mi scoccia un po’ ed è il fatto che prima erano i giovani che amavano i miei libri e avevo l’impressione di essere uno scrittore di culto solo per i giovani. Mi accorgo che, a poco a poco, sto diventando un autore da grande pubblico e qualcuno dice che sono un personaggio importante. Questo mi dà fastidio perché è complicato per me. Amo le cose semplici. È una delle ragioni per cui può essere interessante tentare nuove avventure. Però bisogna trovarle. Per esempio mi piace cucinare, ma lì non c’è una sfida particolare per me. E mi piace molto anche tradurre. Quando non scrivo libri miei, traduco quelli degli altri. E, quando non traduco, scrivo. E qualche volta faccio il dj. E qualche volta corro, anche! Forse sono un workaholic!». Continua a viaggiare molto? «Viaggio abbastanza, ma oggi in realtà faccio base in Giappone. Ho vissuto in vari posti quando ero giovane, e oggi che lo sono meno voglio vivere di più nel mio Paese. E non voglio allontanarmi troppo dalla mia collezione di dischi! In effetti ho scritto parecchi libri all’estero. Ho bisogno di concentrazione per scrivere, e sono più concentrato quando sto all’estero. Come romanziere, la cosa straordinaria è che concentrandomi arrivo a essere un altro. Per un anno e mezzo ho scritto Kafka sulla spiaggia e per quel periodo ero diventato un ragazzo di 15 anni, come il protagonista. Sentivo il vento come può sentirlo un ragazzo di 15 anni, e vedevo il mondo come può vederlo un ragazzo di 15 anni». Perché si esprime così poco, soprattutto sulle questioni politiche o sociali? «Sono un romanziere, il mio lavoro è proporre storie, non produrre commenti. Ma mi succede di esprimere il mio parere. Mi esprimo come cittadino quando ne ho l’occasione, come ho fatto a Barcellona sui problemi ecologici, ma non come romanziere. Se faccio troppe dichiarazioni, rischio di nuocere al mio lavoro di romanziere. Bisogna trovare un equilibrio. Uno dei problemi più importanti, oggi, è quello del populismo e dell’ascesa dell’estrema destra. Pensò che sarà necessario che esprima un parere su questo tema. Ma se ho qualcosa da dire, voglio farlo prendendomi il tempo di pesare le parole». © Florence Bouchy 2019 / Le Monde (Traduzione di Fabio Galimberti)