la Repubblica, 26 settembre 2019
La fine del Monte Bianco è vicina
Come il colonnello Aureliano Buendia, anch’io un giorno fui condotto da mio padre a conoscere il ghiaccio. Era quello del Monte Rosa da cui nasce il torrente Lys, e che forma il ghiacciaio a cui domani alcuni amici dedicheranno una simpatica messa da requiem. Adesso che si estingue lo ricordo quand’era già vecchio ma in salute, anzi aveva goduto di una sorprendente stagione di grazia negli anni Settanta: poche estati più tardi camminavo con mio padre per il sentiero che risale i pascoli oltre Stafal, alla testa della valle di Gressoney, e poi attraverso gli alpeggi di Cortlys fino ai piedi della morena glaciale. Già la morena mi impressionava, un’altissima lama ricoperta d’erba e poi via via sempre più brulla. Raggiunto il filo di cresta lo sguardo andava in basso e al di là, verso il solco che un enorme aratro sembrava aver scavato nella montagna, accumulando sui fianchi i detriti su cui noi stessi camminavamo. Vorrei dire che il ghiacciaio a quel punto appariva all’improvviso, ma non è così: all’inizio era solo il fondo del canalone, una lingua di ghiaccio sporco e percorso da rivoli d’acqua opaca, e solo più su, dopo un’altra mezz’ora di cammino, rivelava il suo fronte spettacolare. Il fronte era alto alcuni metri e aveva una bocca, come una grotta bassa e profonda e levigata dall’acqua, da cui sgorgava il torrente già impetuoso. Se fossi stato un bambino-artista forse l’avrei disegnato, ma ero un bambino-matematico e invece mi chiedevo quanta acqua uscisse da lì ogni momento, quanto ghiaccio si sciogliesse per formare un fiume che scorre giorno e notte, e come fosse possibile che non si esaurisse. Lo chiesi a mio padre: com’è che il ghiacciaio continua a sciogliersi ma non finisce mai? Lui rise. Conoscendo solo la montagna d’estate non calcolavo che esistesse una stagione dell’accumulo, quella in cui il ghiacciaio cresce che è l’inverno, però senza saperlo stavo profetizzando le messe da requiem del futuro. Osservando la seraccata instabile del Planpincieux mi viene in mente un altro giorno. Qualche anno dopo ebbi l’occasione di studiare il ghiacciaio del Lys ancor più da vicino, anzi da dentro, grazie a una guida che insegnava a noi ragazzi l’alpinismo e che mi scelse per simulare il recupero di un ferito da un crepaccio. Ero a mio agio con il vuoto, e così la guida mi legò e mi calò dentro quella spaccatura per una decina di metri, mi assicurò con un chiodo da ghiaccio e poi mi lasciò lì a penzolare mentre spiegava ai miei compagni come tirarmi su. Ricordo che dentro il crepaccio tirava un’aria gelida, e le voci arrivavano lontane. Quando gli occhi si abituarono alla semioscurità cominciai a distinguere gli strati di crescita del ghiacciaio, la neve che ogni inverno si accumula e poi pressata dalla neve successiva piano piano si trasforma in ghiaccio, strati di un bianco grigiastro che andavano giù verso un fondo che non vedevo. Li stavo contando quando sentii la corda che mi tirava su. Quel pomeriggio, come ultima lezione d’alpinismo, scendemmo con piccozze e ramponi lungo la seraccata, che è davvero il terreno più strano e imprevedibile che mi sia capitato d’incontrare in montagna, un labirinto di buchi, salti, blocchi rotti e acque di fusione, e alla fine, per festeggiare di esserne usciti, buttammo giù dalla morena i massi più grossi che riuscimmo a smuovere. I massi, spinti lassù dal ghiacciaio nei tempi antichi, ora rotolavano per il pendio sabbioso e andavano a schiantarsi tra le nostre grida. Questi sono i ricordi che in me tornano alla luce ogni volta che un ghiacciaio si estingue o crolla, però quel bambino-matematico è ancora lì, e mi suggerisce che c’è ben altro in gioco. Al di là delle nostalgie private, e della tendenza a dare un’anima a ciò che è inanimato, un ghiacciaio è sostanzialmente questo: una riserva d’acqua che la montagna accumula d’inverno, e che rilascia d’estate. Il fatto che lassù oltre i 3000 metri l’acqua si conservi per mesi in forma di neve e ghiaccio è una di quelle casualità della fisica, o potremmo dire una di quelle fortune, che in pianura rendono possibile la vita come la conosciamo. Rendono possibili i campi, gli allevamenti, le fabbriche, l’acqua che esce dai rubinetti delle nostre città, e quasi mai ci pensiamo guardando le Alpi dall’autostrada, non veneriamo come i popoli dell’Himalaya le nostre dee dell’acqua, dell’abbondanza e della fertilità. Dovremmo farlo, finché le vediamo ancora bianche. Il problema davvero grave non è che un ghiacciaio crolli e provochi danni in fondovalle, né che dove si ritira la montagna sia più fragile e meno sicura, né che il paesaggio a cui siamo abituati cambi (è sempre cambiato, ha sempre trovato una nuova bellezza, e le Alpi saranno diverse ma ancora bellissime quando al posto della neve le copriranno i boschi): è che senza ghiacciai un giorno o l’altro finirà l’acqua, le fonti si prosciugheranno, i fiumi smetteranno di scorrere. Succederà un giorno di fine estate, come oggi: apriremo il rubinetto e non ne uscirà più una goccia. Allora, proprio davanti al plotone d’esecuzione, forse ripenseremo a quel remoto pomeriggio in cui nostro padre ci aveva condotti a conoscere il ghiaccio.