Corriere della Sera, 26 settembre 2019
Il muro di Antonio Polito
Castellammare di Stabia, la «Stalingrado del Sud», primi anni Settanta. Il giovanissimo Antonio Polito ha tentato di iscriversi alla sezione del Psi, corrente lombardiana, per sentirsi rispondere dal portiere che non sarebbe stato lui a scegliere la corrente ma la corrente a scegliere lui (le tessere arrivavano da Napoli già ripartite in base agli accordi di partito). Ha militato per sei mesi in Servire il popolo, movimento extraparlamentare per il quale ha letto come in chiesa i testi di Mao ed Enver Hoxha, il dittatore albanese, fino a quando i capi non gli hanno imposto di scegliere tra Marx e il tennis («scelsi il tennis, e senza rimpianti»). Poi si è iscritto al Pci, «perché non avevo trovato niente di meglio in giro». Un giorno nella sua sezione è passato Giorgio Napolitano, ed è rimasto colpito dal suo eloquio. I complimenti del leader migliorista «mi aprirono le porte di una fulminante “carriera”. Fui cooptato dalla sera alla mattina nel Direttivo della sezione, pur non avendone l’età anagrafica». La stessa scena si ripete l’anno dopo a Napoli con Giorgio Amendola, che cita il «giovane studente». Così Antonio viene mandato in viaggio premio al Congresso nazionale di Milano, che elegge il nuovo segretario: Enrico Berlinguer.
Berlino, Capodanno 1990. Il giovane Polito segue le orme dei suoi coetanei di tutta Europa, e va a salutare il nuovo anno e la nuova era nell’epicentro del terremoto che – trent’anni fa, in questi stessi giorni —, fece crollare il Muro. Fu «quasi un pellegrinaggio di espiazione e rigenerazione». Non un funerale; una festa. Finalmente una rivoluzione, un popolo oppresso che si riprendeva la libertà, due Paesi divisi che si stavano riunificando. Antonio trova casa a Berlino Est, nella villetta di una professoressa che insegna «economia di piano, una materia che ora per fortuna non esiste più», e si unisce alla folla che sciama a Ovest per guardare le vetrine, mangiare i Big Mac, fumare Marlboro, comprare «giocattoli per bambini e quelli per adulti (la parte occidentale di Berlino era la capitale europea dei sexy shop), e naturalmente la frutta fresca. Per molti il vero momento rivoluzionario di quel novembre dell’89 fu sbucciare una banana per la prima volta».
Londra, Capodanno 2000. Il giornalista di successo Antonio Polito ha rinunciato alla vicedirezione di «Repubblica» per andare a fare il corrispondente a Londra, dove – lo ammoniscono i vecchi del mestiere – dovrà limitarsi a raccontare le solite vicissitudini della famiglia reale. Invece la mattina di fine estate 1997 in cui deve partire per la capitale britannica muore lady Diana. Polito si trova a raccontare la reazione degli inglesi alla scomparsa della «principessa del popolo» – felice ossimoro coniato da Alastair Campbell per Tony Blair —, e resta colpito da quella democrazia della metropolitana e dei tabloid, dalla libertà di un popolo che non esita a rivoltarsi contro la sua stessa amata sovrana da cui per una volta non si sente compreso. Blair è l’uomo della sinistra liberale, «the left of the center», che coniuga mercato e diritti, che non vuole impoverire i ricchi ma arricchire i poveri, che non esita a fare la guerra per salvare i kosovari perseguitati dal comunista Milosevic. Il Capodanno 2000, che Polito festeggia al Millennium Dome, simbolo dell’era blairiana, appare il trionfo di quel liberalismo che dieci anni prima aveva abbattuto il Muro.
Invece poi viene la disillusione. Il fallimento del vertice di Nizza sulla costruzione della nuova Europa (amarezza addolcita dall’incontro del protagonista con una collega finnica). Le difficoltà seguite all’adozione della moneta unica, senza un governo comune dell’economia. La tragedia delle migrazioni e il prezzo imposto dalle élite alle classi popolari. L’avvento del populismo, che va per la prima volta al governo di un grande Paese occidentale: l’Italia.
Europa in panne
La crisi in cui si trova l’Unione,
più che alla Gran Bretagna,
si deve alla Francia, responsabile
di forzature controproducenti
Il libro di Antonio Polito arriva fin qui, al nostro presente. E al futuro. La classe dirigente europea, i vecchi partiti sarebbero folli se pensassero di aver rintuzzato l’offensiva populista. Le incognite sono ancora tutte lì, intatte, a cominciare da una rivoluzione di cui non parliamo mai, ma che sta già distruggendo milioni di posti di lavoro: all’intelligenza artificiale sono dedicate pagine illuminanti.
Il Muro che cadde due volte, oggi in libreria per Solferino, non è solo la ricostruzione puntuale degli avvenimenti di cui ricorre il trentesimo anniversario. È un libro scritto benissimo, il che per i lettori del «Corriere» non è certo una sorpresa, in cui si leggono d’un fiato sia le pagine più personali, sia quelle che rievocano episodi dimenticati o svelano verità sottaciute (ad esempio, non sono stati gli inglesi ma i francesi a far fallire l’Europa, prima con la fuga in avanti della Costituzione, poi con il referendum che l’ha affossata). È una biografia intellettuale, come si deduce dal sottotitolo: Il comunismo è morto, il liberalismo è malato, e neanche io mi sento molto bene. È il racconto di una vita e delle speranze di una generazione che con Francis Fukuyama credette veramente che la storia fosse finita con il trionfo del liberalismo, o meglio che la storia avesse una meta, un orizzonte, una direzione, inevitabilmente giusta e razionale.
E invece «la storia, nel senso in cui la maggior parte della gente ne parla, semplicemente non esiste», come ha intuito Popper. La storia non ha una direzione e una meta. È circolare, torna indietro, si ripete in forme diverse. E «non è maestra di nulla che ci riguardi». Troppo giovane per aderire davvero al marxismo, la generazione dell’autore si è rifugiata nel progenitore di Marx, Hegel. Convinta di veder passare «lo spirito del tempo a cavallo», ha creduto allo storicismo, al manifestarsi delle idee nella storia, al progresso senza fine. Così la caduta del Muro era un evento provvidenziale per i «comunisti liberali», perché sarebbe seguito il trionfo della libertà, dell’ingerenza umanitaria, dell’economia sociale di mercato, della costruzione europea.
Oggi, trent’anni dopo, possiamo concludere che non è andata così. Oggi meno di un terzo dei giovani americani pensa che sia importante vivere in una democrazia. Oggi, come scrive Polito, «ci domandiamo se siamo condannati a una nuova sconfitta». La risposta è no. «Abbiamo commesso molti errori, ma non abbiamo sbagliato a scegliere la libertà. È stata la parte giusta della Storia, e deve restarlo per i nostri figli».