Corriere della Sera, 26 settembre 2019
La lotta tra aspiranti autocrati e i parlamenti
Un clamoroso braccio di ferro globale è in corso tra vecchi parlamenti e nuovi aspiranti autocrati. Prendiamo a prestito un termine che proviene dalla storia della Russia imperiale, e forse è esagerato se applicato a uomini politici democraticamente eletti e pienamente legittimati. Ma la metafora è utile a spiegare la portata dello scontro in atto: da un lato leader che intendono far derivare il loro potere da se stessi, dal proprio rapporto diretto con il popolo; dall’altra parlamenti che li ritengono invece sottoposti alla supremazia della legge, che si esprime attraverso i rappresentanti del popolo. Ed è una battaglia inevitabilmente ambigua: in fin dei conti l’etimologia dei due termini in conflitto, «democrazia» e «populismo», è la stessa, poiché «demos» in greco equivale a «populus» in latino.
I casi Johnson e Trump sono emblematici, e simili. Il primo ha cercato di chiudere il Parlamento, sfida estrema in un Paese come l’Inghilterra, dove costò la vita a un sovrano nel ‘600: Carlo I, accanito sostenitore del diritto divino dei re, fu decapitato anche per avere tenuto chiuso Westminster per undici anni. In modo meno cruento, Boris ha sbattuto contro la sentenza dei giudici supremi del Regno Unito, i quali hanno bocciato la sua azione come «illegale», aggiungendo che l’«effetto sui fondamentali della democrazia britannica è stato estremo».
A nche a Washington, con sorprendente contemporaneità, il Parlamento, colà detto Congresso, ha formalmente aperto un’inchiesta sul presidente Trump per «aver violato la Costituzione e tradito il suo giuramento», poiché «nessuno è al di sopra della legge»: procedimento che in teoria può portare fino all’impeachment (anche se il Senato, la Camera degli Stati a maggioranza repubblicana, difficilmente lo autorizzerà).
Saremmo tentati di mettere nel mazzo anche il conflitto che ha opposto di recente in Italia Matteo Salvini al Parlamento che lui voleva sciogliere, e che per resistergli non ha esitato a capovolgere le maggioranze e ad affidarsi alla second life di Giuseppe Conte. Il nostro leader, inebriato dai sondaggi, era arrivato a chiedere per sé «pieni poteri». E, per quanto Salvini non sia né Johnson né Trump, e non solo perché non ha i capelli gialli, quell’evocazione forse maldestra deve avere avuto un suo peso nel coagularsi di una maggioranza di parlamentari contro di lui, visto che in democrazia i pieni poteri non esistono, ma tutti i poteri sono bilanciati da altri.
Stiamo assistendo dunque a una sorta di redde rationem della politica democratica. Trump, Johnson, Salvini, Orbán, Bolsonaro, non sono, come spesso si dice, il passato che torna, ma piuttosto un tentativo di risposta moderna, per quanto talvolta inquietante, alla crisi della democrazia rappresentativa. È la debolezza dei parlamenti, lo scarso consenso di cui godono i partiti che tradizionalmente li animano, la difficoltà di mantenere la promessa della prosperità, ad aver evocato dalle viscere della società del Terzo Millennio gli spiriti dell’autocrazia, dell’uomo forte che non deve chiedere mai, del rifiuto del compromesso democratico, l’illusione del decisionismo incurante di lacci e lacciuoli, di regole e interdipendenze, che spinge il presidente del Brasile a dire in faccia al mondo: «La foresta amazzonica non è un patrimonio dell’umanità, è nostra».
Per questo gli aspiranti autocrati hanno ancora il vento in poppa, e non è affatto detto che non escano vittoriosi dallo scontro con i parlamenti. Il loro appello al popolo funziona, il loro messaggio è semplice, la loro agenda concreta. Non sempre i leader democratici dimostrano di avere la forza e il coraggio di presentare una risposta alternativa e credibile alla crisi, capace di conquistare i cuori, le menti, e i portafogli dell’elettorato.
Del resto Samuel Huntington ci aveva avvisati. Due anni dopo la caduta del Muro di Berlino, il cui trentesimo anniversario cade tra poco più di un mese, aveva previsto che dopo la grande espansione della democrazia liberale succeduta alla fine dei regimi comunisti sarebbe arrivato un riflusso autoritario, terza ondata di un fenomeno che si era già prodotto altre due volte tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo. Oggi i regimi non democratici, messi insieme, rappresentano un terzo del Pil mondiale, contro il 12% di trent’anni fa (soprattutto grazie alla crescita della Cina); e secondo Foreign Affairs si avviano a governare sulla metà del reddito globale.
Ma il fatto è che l’unica forma di democrazia conosciuta è quella parlamentare, e dunque è prudente scommettere sulla sua resistenza. Inghilterra e Stati Uniti ne sono stati la culla. Anche l’Italia nel suo piccolo, immersa nella più grande Europa, ha una solidità che si è dimostrata negli anni a prova di mode e sondaggi; e i leader che contestano il sistema politico, come Salvini, si muovono pienamente all’interno della legalità democratica. E però le sorti del conflitto tra vecchie democrazie e nuove democrature sono nelle mani dei cittadini. L’unica cosa di cui possiamo essere certi, infatti, è che, per esistere, la democrazia ha bisogno dei democratici.