la Repubblica, 25 settembre 2019
L’impeachment di Trump
VANITYX
La presidente della Camera dei deputati di Washington, la democratica Nancy Pelosi, apre formalmente la procedura preliminare che può portare all’ impeachment di Donald Trump. Il dado è tratto. Questo presidente sembra quasi aver manovrato apposta, ha fatto letteralmente di tutto perché ciò accadesse. Si apre una pagina nuova e densa di incognite che può cambiare tutta la campagna elettorale americana nei prossimi 14 mesi. L’ultimo scandalo potrebbe chiamarsi Kiev-gate. Lo ha rivelato una gola profonda dell’intelligence Usa, e Trump lo ha confermato. Parlando con il nuovo presidente dell’Ucraina, Volodymyr Zelenski, gli ha chiesto aiuto per inguaiare l’ex vicepresidente di Barack Obama, Joe Biden. Quest’ultimo è in testa ai sondaggi tra i candidati democratici alla nomination, e al momento è ben piazzato per sfidare Trump nell’elezione del novembre 2020. Hunter Biden, un figlio di Joe, è stato membro del consiglio di amministrazione di una società ucraina, posseduta da un oligarca. Trump ha chiesto al presidente di quel Paese di aiutarlo a trovare notizie compromettenti, per esempio la prova che Biden padre abbia tentato di proteggere il figlio da indagini. C’è perfino il sospetto che la Casa Bianca abbia temporaneamente bloccato alcuni aiuti militari all’Ucraina, per rafforzare la pressione. Quest’ultimo dettaglio viene smentito da Trump, che invece ammette di aver chiesto notizie sul “corrotto Biden”. E aggiunge, in tono di sfida: che male c’è? Il presidente era già sospettato nel 2016 di aver ricevuto un aiuto da Vladimir Putin – sotto forma di campagne diffamatorie contro Hillary Clinton – ma nel Russiagate smentì sempre di averlo richiesto, quell’aiuto. E l’indagine di Robert Mueller non è riuscita a trovare prove certe di una “collusione”. Stavolta invece è lo stesso Trump ad ammettere di aver chiesto l’aiuto in campagna elettorale ad un leader straniero. A proposito di conflitti d’interesse, Trump ha dei figli che continuano a usare il suo nome e il suo prestigio per fare affari in America e nel mondo; né esita a far pagare al contribuente americano l’uso dei Trump Hotel per eventi di Stato. Il Kiev-gate provoca un terremoto in seno al partito democratico. Finora la pressione per avviare la procedura d’ impeachment – sul Russiagate o altri scandali, fiscali e sessuali – era venuta dall’ala sinistra del partito. I radicali in cerca della soluzione giudiziaria erano in minoranza nel partito. La presidente della Camera, Nancy Pelosi, faceva muro contro quelle richieste. Con buoni motivi, almeno sul terreno della tattica politica. Da un lato, l’ impeachment per arrivare a conclusione deve ottenere una maggioranza dei due terzi al Senato, controllato dai repubblicani. È quasi impossibile che questi vogliano scaricare il proprio presidente (lo fecero con Richard Nixon ma erano altri tempi, con una democrazia meno polarizzata). D’altro lato la Pelosi ha sempre temuto di regalare a Trump il ruolo del «perseguitato, vittima di una caccia alle streghe» (espressioni ricorrenti nei tweet presidenziali). La maggior parte dei parlamentari democratici, moderati, ha seguito il parere della Pelosi fino a ieri. Ma il Kiev-gate ha stravolto tutti gli equilibri. Dopotutto il presidente stesso ammette di aver chiesto aiuti a una potenza straniera per infangare il candidato democratico in pole position a cinque mesi dall’inizio delle primarie. La Costituzione prevede l’ impeachment in caso di «alto tradimento, corruzione, o altri crimini gravi». È abbastanza generica e in effetti lascia ampio margine decisionale alla Camera dei deputati, che nel procedimento d’interdizione ha la responsabilità dell’istruttoria. Alla Camera, i democratici hanno la maggioranza e potrebbero arrivare alla messa in stato di accusa del presidente. Sarebbe solo la terza volta nella storia, se ciò accadesse. Mai però un impeachment è arrivato a conclusione, mettendo insieme per la condanna finale i due terzi del Senato. Il sospetto è se Trump pensi di riguadagnare qualche punto nei sondaggi, recitando la parte della vittima in una campagna elettorale trasformata in un lungo processo.