Corriere della Sera, 25 settembre 2019
Lo stato dell’economia italiana
nsomma, l’economia italiana come sta in salute? Sembrerebbe una domanda provocatoria, a porla si rischia di venire sommersi da un coro di grida indignate: male, malissimo, come si vuole che stia? Non cresciamo da molti anni, siamo il fanalino di coda d’Europa, abbiamo un debito pubblico stellare che impedisce qualunque manovra fiscale espansiva, eccetera eccetera. Contrapporre a tutto questo un giudizio men che catastrofico viene visto o come ottimismo sciocco o, peggio, come corriva compiacenza nei confronti del governo del momento, che deve per forza trovare qualcosa di promettente da indicare ai propri elettori. Eppure conviene porsela quella domanda, con la necessaria freddezza, muovendo da una constatazione ovvia ma spesso dimenticata: l’Italia resta un Paese ricco e avanzato nel confronto planetario. Stiamo nella serie A del mondo. Nonostante tutto. Secondo dati del Fondo monetario internazionale sul 2018, l’Italia è un Paese di circa 60 milioni di abitanti, produce beni e servizi per l’equivalente di oltre 2.000 miliardi di dollari, ha un avanzo nelle partite correnti della bilancia dei pagamenti di oltre 50 miliardi di dollari, cioè esporta più di quanto importi.
L’ Italia è pertanto, nella classifica di tutti i Paesi del mondo, ventitreesima per popolazione, ottava per Pil, decima per risultato degli scambi con l’estero (ma ottava escludendo Russia e Arabia Saudita, che esportano prevalentemente fonti di energia). Non si confronta certo con gli Stati Uniti o con la Cina o con la Germania, ma neanche con un Paese piccolo, povero e derelitto. Da dove proviene in particolare il successo delle esportazioni italiane? Da alcune imprese dinamiche e profittevoli, spesso alla frontiera dell’innovazione tecnologica, capaci di competere ad armi pari con i concorrenti di tutto il mondo e di batterli. Sono sempre di meno, ma sempre più aggressive e di successo.
Tutto bene, tutto magnifico, andiamo avanti così? No, proprio no. Ma i nostri problemi vanno identificati con cura. Essi non stanno in ciò che (ancora) siamo rispetto agli altri Paesi del mondo, stanno nel fatto che scivoliamo lentamente indietro nella nostra posizione relativa, ormai da un quarto di secolo. Non tanto da averci già fatto precipitare in serie B o C, ma abbastanza da configurare seriamente questo rischio. Rischio che si è concretizzato altre volte nella storia dell’Italia moderna, ricordiamolo sempre.
Dopo la brillantissima stagione del Rinascimento arrivano tre secoli di declino ininterrotto, al culmine del quale, nella prima metà dell’Ottocento, l’Italia è una landa poverissima e desolata. Un precedente davvero preoccupante. L’effervescente periodo che va dalla fine dell’Ottocento alla vigilia della prima guerra mondiale consente al nostro Paese di fare la sua prima industrializzazione e scalare molte posizioni nelle graduatorie di sviluppo; poi però vengono la prima guerra mondiale, il fascismo, la seconda guerra mondiale, e ce ne fanno perdere parecchie di posizioni, nonostante illusori momenti di vanagloria nazionalista. Dopo il miracolo economico degli anni Cinquanta e Sessanta, che di nuovo sospinge l’Italia nella pattuglia di testa dei Paesi avanzati, sopraggiunge un periodo confuso, turbolento, socialmente, politicamente, economicamente.
Negli anni Settanta inizia poi quel fenomeno di rimpicciolimento e nascondimento (agli occhi dell’opinione pubblica, della classe politica, del fisco, dei sindacati) delle imprese che si rivelerà decisivo due decenni dopo nel far riaffacciare il rischio di un declino storico. Perché imprese piccole sono meno adatte a una tecnologia dominante che sta cambiando e noi dagli anni Novanta perdiamo continuamente posizioni relative nelle graduatorie di efficienza e di produzione.
Viene allora da chiedersi in che modo le politiche pubbliche possano deviare il corso della storia recente della nostra economia. In questo momento di transizione politica da un governo a un altro, da una maggioranza a un’altra, è il bilancio pubblico che tiene banco: si discute accanitamente su come modificare la composizione della spesa pubblica, aumentando certe spese e riducendone altre, se e come ridurre (o invece aumentare) le tasse, tenendo conto delle opinioni degli investitori in titoli pubblici italiani (espresse nel temibile spread) e delle norme europee.
La politica fiscale è importante, caratterizza l’azione di un governo agli occhi degli elettori, quindi è giusto che attragga tanta attenzione. Tuttavia non è dal bilancio pubblico che ci si può aspettare un rilancio dello sviluppo. Intendendosi per sviluppo una crescita economica sostenuta e duratura, che faccia allontanare lo spettro del declino. Una manovra espansiva di bilancio può aiutare a far uscire l’economia da una temporanea recessione, non può spostarla da un binario a scartamento ridotto a uno ad alta velocità. Occorre invece modificare la griglia degli incentivi agli imprenditori attuali e potenziali perché accettino la sfida di far nascere e crescere rapidamente le loro imprese tutte le volte che possono. Questo è il nodo vero, anche se potrebbe essere molto lontano dalle ansie e dalle preoccupazioni della gente comune, che può non avere sguardo lungo per vedere il percorso della storia.
Ora, di questi incentivi fa certamente parte una pressione fiscale più bassa e un vasto programma di investimenti pubblici, che (a parità di tutto il resto) costano parecchi soldi pubblici. Ma il grosso sono norme, regole del gioco, cambiare le quali non costa soldi ma capitale politico, perché toccano molteplici interessi di molteplici segmenti della società e a volte discendono da pregiudizi ideologici. Parlo di quelle migliaia di norme nazionali e locali che regolano il funzionamento delle burocrazie e dei mercati. È un reticolo anti-competitivo, che favorisce le rendite e quindi l’iniquità sociale, che scoraggia chiunque abbia idee ed energie rivolte alla crescita. Dobbiamo aspettarci che un governo determinato e con la veduta lunga vi metta finalmente mano.