Corriere della Sera, 20 settembre 2019
Su "La mia ombra è tua" di Edoardo Nesi (La Nave di Teseo)
Ci sono mille ragioni per leggere con gusto e interesse La mia ombra è tua, il nuovo romanzo di Edoardo Nesi pubblicato da La nave di Teseo. Una ragione stilistica e lessicale, per il suo linguaggio essenziale ma arguto, speziato di toscanismi vernacolari («mi garba», «gli fo») che suonano autentici e non manieristici e lambiccati per fare il verso al finto popolaresco. Una ragione letteraria, perché il romanzo trasuda di passione per la letteratura, a cominciare dal titolo che richiama un passaggio di quello che appare il libro-culto di Nesi, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry: «Io non ho una casa, solamente un’ombra, ma tutte le volte che arai bisogno di un’ombra, la mia ombra è tua». Una ragione morale perché mescola con grande equilibrio ironia e malinconia, disperazione esistenziale e sguardo beffardo sulle miserabili bizzarrie della vita sociale. E poi Nesi, amante della letteratura e scrittore di romanzi, sa mettere alla berlina le miserie della spesso grottesca vita letteraria italiana. Sa giocare con la varietà dei tipi umani che popolano la trama del romanzo. Manovra bene parole e situazioni per immergersi nelle atmosfere dell’imprevisto e del paradosso. Ci sono i romanzi-mondo, dicono gli esperti di storia della letteratura: quello di Nesi è un romanzo del piccolo mondo italiano, eppure carico di significati più estesi, meno circoscritti, e che affrontano i dilemmi morali di sempre, destinati a rimanere anche quando la storia si trasforma, increspando la superficie delle relazioni umane.
La voce narrante del romanzo è Emiliano De Vito, giovane fiorentino laureato in Lettere antiche (il suo «bozzolo»), grande estimatore di Epitteto e che ha come faro le strazianti poesie di Catullo sulle illusioni d’amore e sullo svanire della «fiammata di gioia» dei giorni passati con l’amata: «Ma tu Catullo, resisti, non cedere». Ovviamente è uno studioso volenteroso ma disoccupato fino a che il destino non gli farà incontrare (accolto a fucilate, ma questo è solo l’inizio) il re del successo letterario, Vittorio Vezzosi, l’autore di un libro parodisticamente intitolato I lupi dentro, a sua volta ispirato da un’epigrafe di Jim Morrison: «Le poesie hanno i lupi dentro«. Questo Vezzosi, in tutta la prima parte del libro, sembra un cialtrone che sale sul palcoscenico dove si recita la fiera delle vanità contemporanee. Si nasconde in una villa dalle parti di Firenze dove dare fondo alle sue manie di grandezza e alle sue smanie bizzarre. Si avvale dei servigi di un badante acculturato come Mamadou, in bilico tra l’affettazione simil-aristocratica nei modi e nelle inclinazioni e le paure di un emarginato alle prese con i ricatti e le angosce di permessi di soggiorno crudelmente precari. Si allontana dai riflettori del mondo praticando pose «viziose» di droga e di sesso che lo fanno combaciare in pieno con il personaggio stereotipato dello scrittore maledetto. Si balocca nascondendosi all’editore di I lupi dentro perché da anni oramai non ha scritto nemmeno una riga del romanzo promesso a suon di favolosi anticipi sui diritti d’autore, autore di un’opera che chissà se mai vedrà la luce. Questo fino a un certo punto del romanzo, poi Vezzosi subisce nelle pagine di Nesi una metamorfosi radicale che spiazza anche il giovane Emiliano (che Vezzosi si ostina, pensando di fare dello spirito, a chiamare «Zapata») e che lo fa sembrare quasi come un’antitesi dello scombiccherato spirito del mondo.
Il libro di Edoardo Nesi, quando lo scrittore abbandona la magione dell’isolamento dorato, diventa un accidentato percorso on the road in cui la figura di Vezzosi quasi si scioglie, e si umanizza, in quella di un uomo dominato dallo spirito di avventura, un anarchico insofferente delle regole e delle convenzioni che considera un attentato alla libertà personale e alla dignità umana persino qualche articolo del codice stradale. Tutt’intorno l’effimero di fiere assurde e caricaturali, dove il commercio del vintage cerca di scalare vette filosofiche impervie, dove la misura del prestigio sociale viene calcolato sulla quantità di follower e visualizzazioni sui social network, dove il successo di un libro nemmeno tanto eccellente sul piano del valore letterario si trasforma in un’isteria di massa che afferra pure la madre e la ragazza del povero Emiliano. Il quale comprende la vacuità del successo del Vezzosi, lui che ama lo spirito dell’Epitteto quando scriveva: «Devo morire/ se subito, sono pronto a morire/ se fra un po’/ ora pranzo, perché l’ora/ poi morirò». Ma è strabiliato, come il lettore del resto, dalla rivelazione di un Vezzosi sentinella delle cose vere e autentiche della vita. Per esempio un amore eterno e mai consumato che è il tormento e l’attesa di tutta un’esistenza, nell’epoca della volatilità, della inconsistenza e fragilità di un’era in cui dominano «i ciuchi» che non sanno nulla ma «hanno creato un tribunale globale di mentecatti» dove si sminuzza ogni gusto, ogni valore, ogni pretesa di autenticità.
Perché poi questa serietà riscoperta di uno scrittore che sembrava una marionetta nella fiera delle vanità, con tutti i suoi tic e le sue finte stravaganze e i suoi impegni mai onorati e invece si autoriscatta come una barriera contro il cialtronismo prepotente, si piega nella tristezza e nella disperazione sconfinata di una constatazione: che la letteratura non potrà mai sanare i dolori, gli atroci dolori che accompagnano la vita vera. E l’elenco degli scrittori che hanno deciso di togliersi la vita nei modi più variegati — da Virginia Woolf a Hemingway, da Salgari a Sylvia Plath, da Sándor Márai fino a Franco Lucentini, Primo Levi e David Foster Wallace — è un modo per Vezzosi per ricordare, a sé stesso e alla figlia lontana che non sa come amare questo padre estroso e inaffidabile, che cos’è una vita per così dire seria, dedicata a mettere in pagina e a tentare di padroneggiare cose importanti: «Seguitavo a immaginarmeli negli ultimi giorni che camminavano per la casa a testa bassa, soli, sconfitti, invasi dal nulla, spettinati, nudi, malvestiti, gli occhi svuotati, i pensieri sciupati, ogni parola svanita, ogni futuro cancellato». Un’incapacità di venirne a capo che rende tutto lo scintillio delle carriere letterarie accecate dalla luce dei riflettori qualcosa destinato a morire presto mentre restano gli amori impossibili, le letture appassionate, le scene più belle della storia del cinema. Come quella della Dolce vita di Fellini menzionata da Nesi in cui Anita Ekberg, a notte fonda, in una città deserta, raccoglie un gattino randagio e chiede a Mastroianni di trovargli un po’ di latte quando tutti i bar sono chiusi e incredibilmente Mastroianni trova quel latte.
Un «incredibilmente» che, secondo Nesi, riassume il senso «di tutte le storie». Anche la storia dello scrittore Vezzosi e anche quella del giovane Emiliano («Zapata») è intessuta di questi squarci incredibili, come è incredibile il ritrovarsi dopo decenni tra due persone che si sono amate in silenzio. E che si seguono come un’ombra l’uno dell’altra: «La mia ombra è la tua»