La Stampa, 24 settembre 2019
Giovanni dalle Bande nere e il gene dell’aggressività
Che ruolo potrebbe aver avuto il «gene dell’aggressività», MaoA (monoamino ossidasi A), indicato anche con i nomi più suggestivi di gene del guerriero («warrior gene») o gene malvagio («evil gene»), nel determinare i caratteri di bellicosità e temerarietà che hanno fatto diventare Giovanni de’ Medici (1498-1526) il celebre capitano di ventura Giovanni dalle Bande Nere?
L’interrogativo è nel titolo di un saggio sulla rivista «Journal of Affective Disorders»: «Did Giovanni dalle Bande Nere became a legendary condottiero because of his MAOA gene?». Gli autori – un gruppo di studiosi delle Università di Pisa e Catanzaro diretti dai neurobiologi Pietro Pietrini e Silvia Pellegrini – portano un nuovo tassello in un filone di ricerca che promette di approfondire i meccanismi che sottendono il comportamento umano, compresi quei comportamenti che violano le norme morali e sociali.
Le ipotesi che l’aggressività e i comportamenti antisociali possano essere generati da un basso livello di attività di un particolare enzima, chiamato, appunto, monoammino ossidasi A, hanno sollecitato l’ interesse dei ricercatori già a partire dagli Anni 90, influenzando la discussione su importanti casi di omicidio. Il primo, diventato un classico, riguarda uno studio genetico e metabolico condotto da Han Brunner su una famiglia olandese, in cui diversi maschi erano affetti da una sindrome di ritardo mentale «borderline» e da comportamenti anormali che includevano aggressività impulsiva, incendi dolosi, tentati stupri e forme di esibizionismo. In ciascuno dei cinque individui fu rilevata una carenza completa e selettiva dell’attività enzimatica proprio del gene MaoA: una versione di questo tratto di Dna, contenente le istruzioni per un enzima che regola i messaggeri chimici dell’umore (tra cui la serotonina), può infatti indebolire i circuiti neurali del cervello e predisporre ad azioni impulsive e a comportamenti violenti, fino ad arrivare al crimine.
Un altro caso, di cui dà conto la genetista Francesca Forzano sullo «European Journal of Human Genetics», porta in Italia: qui un uomo, accusato di omicidio, ha ottenuto una riduzione di pena sulla base di test genetici. Il gene MaoA a bassa attività – aveva riconosciuto il giudice – poteva aver reso il soggetto più incline a manifestare aggressività, in quanto cresciuto in un contesto sociale negativo e in un ambiente psicologicamente traumatico.
Il comune denominatore era, nei due casi, il gene MaoA, localizzato nel cromosoma X, associato con i comportamenti violenti, senza trascurare l’interazione ambientale. L’interesse per questo aspetto ha spinto gli autori dello studio a indagare un caso storico: Giovanni dalle Bande Nere.
Cresciuto senza un padre e privo delle cure della madre, Caterina Sforza, formidabile guerriera e in armi in un’Italia sconvolta da lotte per il potere, Giovanni aveva ucciso un ragazzo quando era adolescente. Aveva continuato negli anni successivi, tanto che a 20 anni aveva collezionato una decina di omicidi. Temerario in battaglia, era soggetto a scoppi incontrollabili d’ira che terrorizzavano i suoi soldati, i quali ne conoscevano l’incapacità a controllarsi. Ventottenne, nell’ultimo anno di vita, assassinò un nobile lucchese. «Un criminale nato», per riprendere il giudizio dello storico fiorentino Gaetano Pieraccini.
E allora quale migliore «modello» per verificare la presenza del gene dell’aggressività? Avendo a disposizione un frammento del femore sinistro del condottiero, dopo l’esame, qualche anno fa, da parte del paleopatologo Gino Fornaciari, il team ha potuto estrarre il Dna e procedere alla genotipizzazione di MaoA tramite la reazione a catena della polimerasi. I risultati confermano che Giovanni dalle Bande Nere aveva una variante molto rara (presente solo nell’1% dei maschi caucasici) del gene. L’associazione tra questa rara variante genetica e le esperienze anaffettive – concludono gli autori – potrebbero aver contribuito ai suoi eccessi di aggressività.
Pur nei suoi limiti, visto che si tratta dell’indagine retrospettiva di un caso isolato, si tratta, comunque, del primo studio che approfondisce – sulla base delle acquisizioni di genetica comportamentale – un modello, storicamente documentato, di comportamento aggressivo e antisociale. La genetica comportamentale e l’epigenetica, infatti, forniscono preziosi dati sull’interazione tra geni e ambiente: si tratta di un risultato che ha implicazioni importanti non soltanto per le neuroscienze, ma anche per le scienze sociali, tra cui l’etica, la filosofia e il diritto