Corriere della Sera, 24 settembre 2019
Il massacro di Cefalonia
hissà perché Ermanno Bronzini, biologo di fama, docente di parassitologia, ufficiale dell’esercito a Cefalonia al tempo dell’armistizio del 1943, non pubblicò in vita questo terribile diario scritto allora, trovato in un cassetto tanti decenni dopo dal figlio Claudio e pubblicato ora dal Mulino: La battaglia di Cefalonia. Per pudore, per tremore, per rifiuto di una memoria tormentosa anche se indimenticata? Nato a La Spezia nel 1914 – è morto nel 2004 —, laureato in Scienze naturali, ufficiale di complemento in artiglieria, frequenta alla Scuola di guerra il corso di abilitazione al servizio delle grandi unità e nel luglio 1943 è assegnato al comando della divisione Acqui a Cefalonia. Il generale Antonio Gandin, che ne è a capo, conosciuto e stimato dai tedeschi di cui sa anche la lingua, destina il capitano Bronzini all’ufficio operazioni: un ruolo importante al suo fianco che offre l’opportunità di conoscere tattica e strategia della divisione, i rapporti con i tedeschi, gli umori dei soldati.
L’Acqui è composta da tre reggimenti di fanteria, il 17°, il 18°, il 317° e da un reggimento di artiglieria, il 33°. Il comando della divisione, 11 mila uomini, ha sede ad Argostoli, nel sud dell’isola; il presidio tedesco, la 1ª divisione da montagna della Wehrmacht, un reparto d’élite, duemila uomini, è acquartierato nella penisola di Luxuri, non lontano.
Sembra che del massacro di Cefalonia, responsabile la Wehrmacht, non le SS, un episodio che disonorerebbe ogni esercito, sappiamo tutto, la bibliografia è infatti ricca. Tra gli ultimi studi uscì nel 2014 il fondamentale saggio di uno storico tedesco, Hermann Frank Meyer («Corriere», 27 aprile 2014) con un importante testo di Giorgio Rochat. Ma studiarono la strage di Cefalonia altri storici di nome, tra gli altri Gian Enrico Rusconi, Elena Aga Rossi che ha curato il diario di Ermanno Bronzini ed è autrice della prefazione del suo libro.
La battaglia di Cefalonia racconta quel che successe dall’8 al 24 settembre nell’isola insanguinata: il diario è minuzioso, ricco di particolari che non si trovano sui libri di storia – un dialogo, un piccolo fatto, una riunione del comando – utili a capire alla radice quel che accadde.
Sedici giorni di passione, di coraggio, di dolore e di morte. L’8 settembre, l’armistizio. Una festa per i soldati della Acqui con le mostrine gialle. È finita, sentono l’aria di casa. L’illusione dura poco. Il comando dell’armata ordina di deporre le armi, i tedeschi si fanno subito vivi e chiedono anch’essi le armi della divisione. L’Acqui è isolata. Cerca senza successo di collegarsi al comando supremo – a Bari, a Brindisi? —, non si sa ancora che il re, Badoglio, i generali sono fuggiti vergognosamente da Roma e si sono imbarcati, a spintoni, sulla corvetta Baionetta a Ortona a Mare, diretta al Sud. Gandin per mostrare «la sua buona disposizione verso i tedeschi» ritira da Kardakata, una posizione chiave, un battaglione del 317° fanteria, che domina la penisola di Luxuri. Il generale è prudente, sente sulle spalle la responsabilità del destino di 11 mila uomini. Ma «Ogni tanto – scrive Bronzini – qualche ombra affiora sulle sue parole».
I tedeschi patteggiano, «vogliono soltanto sapere se la divisione Acqui è contro di loro oppure cede le armi». Con le armi, i magazzini, senza garantire nulla sulla vita degli uomini.
Sotto le bombe
La resistenza fu stroncata dall’azione degli aerei Stukas, padroni del cielo
Il comando supremo italiano finalmente si fa vivo e ordina di resistere. La divisione Acqui è isolata, Santa Maura e Zante sono in mano tedesca, Gandin emana un ordine di operazioni, poi un altro ordine in cui «invita le truppe a esprimere il proprio parere: contro i tedeschi, con i tedeschi, cessione delle armi» La totalità degli ufficiali e dei soldati della divisione vuole battersi. (Nel dopoguerra susciterà scandalo quel che verrà chiamato referendum perché fuori dalle regole militari. Il capitano Bronzini non diede allora importanza a questa richiesta di opinioni. Gli storici Meyer e Rochat oggi minimizzano).
Tutti i più o meno finti tentativi di un accordo tra Gandin e i tedeschi che nei giorni della trattativa sono riusciti a far arrivare nell’isola consistenti rinforzi, almeno 5.000 uomini, un battaglione alpino, due compagnie di fanteria, due batterie di artiglieria, falliscono.
La parola passa alle armi. La resistenza spesso eroica dei reparti della divisione Acqui è annientata dalle tonnellate di bombe degli Stukas, padroni del cielo e della terra. «Quando verranno i nostri aeroplani?» si chiedono angosciati i soldati. Le richieste di Gandin, i messaggi quotidiani, ossessivi, al comando supremo di aerei da caccia e di munizioni non hanno risposta. È la fine. Il morale delle truppe italiane, alto all’inizio della battaglia, sotto quella tempesta d’acciaio è crollato. La contraerea non esiste o quasi, i reparti sono in rotta. 22 settembre 1943: bandiera bianca a Cefalonia. (Ancora pochi giorni prima della resa, durante la trattativa, gli uomini della divisione erano riconosciuti dai tedeschi come belligeranti. Ora sono diventati soltanto banditi, traditori e vengono fucilati, massacrati, dal generale Gandin all’ultimo soldato: 5 mila? 9 mila? Ancora oggi non si conosce con precisione il numero delle vittime).
Una quindicina di pagine, alla fine del diario, straziano il cuore. Nel descrivere il comportamento della 1ª divisione da montagna tedesca dopo la resa, Bronzini ricorda quel che vide tempo prima in un mattatoio di Bologna, «le grida indifferenti dei macellai e la disinvoltura, frutto di una lunga pratica, con cui vibravano il colpo mortale».
Più di 400 ufficiali, dopo la resa, vengono condotti su delle carrette alla punta di San Teodoro, non lontano da Argostoli, la casetta rossa, e lasciati in un cortiletto ad attendere la morte. A dirigere le fucilazioni è un sottufficiale. «Fuori otto» e «Si ode una scarica di fucileria seguita da tanti colpi di pistola» uno per ogni vittima. «Fuori altri otto», «Fuori quattro». Una macelleria dell’orrore, mentre i soldati tedeschi rubano quel che possono nei sacchi dei condannati a morte, «uomini dignitosamente rassegnati».
Il capitano Ermanno Bronzini, con altri 36 ufficiali, si salva per un miracolo celeste. Dopo un po’ di ore di quel supplizio arriva un motociclista, parla con l’interprete. «Questi a voce altissima traduce: il comando germanico concede la vita ai presenti».
Gli uomini del plotone d’esecuzione vanno a fare il bagno sotto la casetta rossa, nel mare omerico di quell’isola così bella e infelice.