la Repubblica, 24 settembre 2019
I bambini del Sud dati in affido alle famiglie emiliane dal Pci
La letteratura è meglio della politica. Lo dico in forma di slogan (dunque in forma poco letteraria…) dopo avere letto Il treno dei bambini (Einaudi Stile libero) della scrittrice napoletana Viola Ardone, forte romanzo sul dopoguerra italiano. Lo dico perché il racconto, per ragioni del tutto fortuite – il libro è stato pensato e scritto ben prima del famigerato “caso Bibbiano” – affronta un argomento che la propaganda politica ha invece orribilmente scempiato, e sfigurato. Si narra, nel libro, dell’affido di massa di bambini meridionali organizzato dal Partito comunista negli anni Quaranta e Cinquanta. Nello sconquasso post-bellico, tra le macerie non solo materiali di un Paese atterrato e disgregato, migliaia di “figli di nessuno” o di famiglie miserabili vennero “assegnati” da funzionari del Pci e dell’Unione Donne Italiane, al di fuori di qualunque tutela legale o regola istituzionale, a famiglie dell’Emilia rossa che li accolsero come figli, li sfamarono, li fecero studiare. La voce narrante del romanzo, che l’autrice ha ricostruito con esemplare fatica linguistica (come parlava, come pensava un bimbo proletario napoletano degli anni Quaranta?), è quella del piccolo Amerigo Speranza, cresciuto in assenza di padre da una madre povera e spaventata. Caricato insieme ad altre centinaia su un treno per il Nord, segnato dal trauma inguaribile della separazione, turbato dalle dicerie di vicolo – «vi portano in Siberia», «vi mettono nel forno e vi mangiano» – Amerigo va incontro alla sua nuova vita in bilico tra un tenebroso smarrimento e la febbrile curiosità dei piccoli. Troverà salumi appesi nelle case contadine, piatti pieni, le carezze materne di altre donne, accoglienza e scolarizzazione, una socialità profondamente diversa da quella, vitale e feroce, dei suoi Bassi nativi. Un secondo mondo si somma al primo, senza riuscire a rimarginare la ferita dell’abbandono materno, e però spalancando ad Amerigo la porta della dignità sociale. Viola Ardone ha concepito il suo romanzo a partire dal racconto di uno dei protagonisti di quella “deportazione filantropica”, oggi ottantenne. L’esperienza fu condivisa da migliaia di suoi coetenei. È utile ricordare che negli stessi anni, e fino ai Sessanta, gli americani misero in piedi, con il Foster Parents Plan, una gigantesca e ammirevole operazione di “affido a distanza” che permise di mantenere agli studi, però rimanendo nelle loro famiglie, decine di migliaia di bambini italiani poveri. È immaginabile una specie di “concorrenza” ideologica tra americani e comunisti, con i primi in grado di dislocare, grazie al Piano Marshall, grandi quantità di denaro, e i secondi che misero in campo ciò di cui disponevano, cioè la disponibilità personale di un esercito di militanti, le loro case, le loro famiglie, la loro fede, in quegli anni intatta e palpitante, nel mutuo soccorso popolare. Il romanzo, genere che per sua natura esige scavo psicologico, ampiezza dello sguardo narrativo, restituzione piena della dimensione umana, ha il pregio, davvero consolante, di raccontare la storia di un bambino in affido senza occultarne alcun aspetto. E anzi rispettando la straziante “doppiezza” della vita di Amerigo, la perdita della mamma e la sconfitta della fame, le radici recise e la nuova serenità, l’insicurezza indigena e la protezione “artificiale” imposta dall’alto e al tempo stesso provvidenziale. Un romanzo non giudica, non specula, non ispessisce i pregiudizi, non alimenta la fretta di avere ragione e di distribuire torti. Un romanzo racconta, e se il racconto è vivo, se lo scrittore è capace, ci inchioda alla fantastica complessità delle nostre vite. La cui riduzione a materiale di propaganda è un vero e proprio furto di verità e di realtà. Uno scandalo, scandalosamente giocato sul terreno dell’applauso facile, dei tempi brevi e brevissimi, della perdita di profondità e di umanità. Per paradosso, è proprio la politica a dare l’abbrivio al Treno dei bambini: la volontà del Pci di trasferire al Nord migliaia di bambini poveri del Sud. Ma la letteratura sa “spiegare” quella vicenda, che certo non fu immune da tentazioni di indottrinamento e di propaganda, molto meglio della politica. Verrebbe da dire che solamente la letteratura è in grado di spiegare la politica alla politica, calandola dentro il mondo e in mezzo agli umani. Anche in senso lato. Perché, per esempio, la miseria e la fame, che oggi paiono del tutto rimosse dalla memoria degli italiani, sono appena tre passi (tre generazioni) alle nostre spalle. E viene voglia, leggendo le pagine di Ardone, di rivedere Sciuscià di De Sica o di rileggere La storia di Elsa Morante, con quel bambino Useppe infinitesima briciola negli ingranaggi tremendi del mondo. C’è una potenza neorealista, nella lunga prima parte del libro – quella dell’infanzia di Amerigo – che ci costringe a domandarci quanto grave sia la dimenticanza della nostra storia, quella dei padri e dei nonni, la nostra storia contadina e operaia, rurale o urbana, comunque fatta di una durissima lotta. Quanti italiani sotto i quarant’anni avranno visto Sciuscià, o letto La storia? Quanti sapranno di quali penurie e soprusi noi siamo i figli, e quali formidabili fatiche, slanci, speranze ci hanno tratto in salvo? Certo la nostra lunga strada è sempre meno raccontata dalla politica, costretta nelle sue angustie promozionali a vivere nel giorno per giorno, anzi nell’ora per ora da quando è il ritmo sincopato dei social a dare linguaggio alla Polis. Per questo è importante continuare a leggere i romanzi, e a scriverli: per dare aria, spazio, tempo, prospettiva alle nostre storie.