Corriere della Sera, 28 luglio 2019
Sulla mostra "De Chirico" al Palazzo Reale di Milano
Sono muse, argonauti, archeologi, manichini, filosofi, figlioli prodighi, gladiatori, cavalli. Sono i protagonisti del “Gran Teatro Giorgio de Chirico” che andrà in scena al Palazzo Reale di Milano dal 25 settembre al 19 gennaio 2020 per la mostra che (a quasi cinquant’anni dalla personale del 1970) torna a raccontare le sue Piazze metafisiche, i suoi Enigmi, le sue Genealogie, i suoi Trofei, le sue Bagnanti sopra una spiaggia. Una novantina di opere scelte dal curatore Luca Massimo Barbero nell’oceanica produzione del “Pictor Optimus” che di quel “Gran Teatro” è il regista, il drammaturgo, lo scenografo e il costumista. Capace di mescolare senza nessuna paura (e con una spudorata voglia di irriverenza tanto da «autoritrarsi» in mutande o in costume da torero anticipando le odierne performance d’artista) classicismo e modernità, un nuovo Barocco e l’antica melanconia dei naufraghi, un torso greco e un casco di banane, una scatola di biscotti e un violino. Nell’opera di de Chirico (1888-1978) c’è tutto e il contrario di tutto: le suggestioni dell’Antica Grecia legate alle radici familiari (Giorgio nasce a Volos in Tessaglia, il fratello Andrea che poi sceglierà di chiamarsi Alberto Savinio ad Atene); la lezione del Surrealismo e delle avanguardie poi rifiutate; la qualità di pittura degli «antichi maestri» che de Chirico avrebbe difeso a spada tratta contro «il modernismo delle Biennali». Un universo volutamente anti-contemporaneo ma capace di andare dritto al cuore della contemporaneità. Come dimostrano in mostra il ritratto di Cindy Sherman (Untitled #201 del 1989) evidentemente ispirato a modelli dechirichiani o quella frase Et quid amabo nisi quod ænigma est? (che cosa amerò se non l’enigma delle cose?) con cui Giorgio de Chirico aveva intitolato il suo Autoritratto nel 1911 (ispirato a quello di Nietzsche) stampata da Giulio Paolini su un enorme striscione per l’installazione nel Campo urbano di Como nel 1969. Come certificano anche le parole di Andy Warhol che davanti alla tardiva «ripresa» delle Muse inquietanti avrebbe commentato: «L’ho incontrato così tante volte a Venezia e ho pensato che amavo moltissimo il suo lavoro. Ripeteva i suoi dipinti di continuo. Ciò che lui replicava regolarmente, anno dopo anno, io lo ripetevo lo stesso giorno nello stesso dipinto». Un Warhol letteralmente fulminato dal de Chirico esposto al Moma nel 1980, a cui dedicherà l’ormai dimenticata mostra Warhol versus de Chirico tenuta prima al Campidoglio a Roma nel 1982 e poi alla Galerie Kammer di Amburgo nel 1983.
Inquietudine, forza, curiosità. Queste le caratteristiche che rendono ancora oggi uniche le immagini di de Chirico. «Da anni non c’è stata un’antologica così completa — spiega Barbero — classica nell’impianto e per questo tremendamente nuova, che può oltretutto contare su prestiti eccellenti». Dalla Tate Modern di Londra (L’incertezza del poeta, 1913); dal Metropolitan di New York (Autoritratto, 1912-13, Ariadne, 1913); dal Centre Pompidou di Parigi (Ritratto dell’artista con la madre, 1919); dalla Gnam di Roma (Ritorno al castello, 1969); dal Mart di Rovereto (Due figure mitologiche, 1927); dalla Menil Collection di Huston (L’inquiétude de l’amie ou l’astronome, 1915); dalla Peggy Guggenheim di Venezia (Il pomeriggio soave, 1915); dal Museu de arte Contemporânea di San Paolo (L’enigma di una giornata, 1914). Una mostra che può però contare anche su prestiti privati altrettanto eccellenti «che dimostrano il fascino esercitato da de Chirico sui collezionisti». Da un grande collector come l’architetto Philip Johnson arriva così uno dei de Chirico oggi al Moma.
Sarà un viaggio scandito in otto tappe, tante quante le sale della mostra. Dedicato in particolare alle nuove generazioni «che non conoscono de Chirico nonostante sia uno degli artisti più presente in rete, grazie alle innumerevoli rivisitazioni pop/popolari delle sue opere». Un viaggio che inizierà dalla Grecia dell’infanzia, dalla mitologia familiare di quel Centauro morente del 1909 che, da una parte, certifica il grande rispetto di de Chirico per l’Accademico e, dall’altra, l’importanza della famiglia nell’iconografia dechirichiana. Una famiglia, la sua, che viveva come fuori dal tempo, «in un mondo cosmopolita fatto di cantanti d’opera, ambasciatori, esploratori, nobildonne». Dove a fare compagnia ai due fratelli, oltre all’ingombrante madre Gemma, ci saranno i libri di Jules Verne.
Se per de Chirico «il teatro è stato bello fino a quando ci sono state le scene dipinte», le sue Piazze d’Italia in mostra celebrano il legame, più o meno inconscio, che unisce quegli spazi ideali (concepiti durante gli anni ferraresi dell’artista) al cinema. «Il silenzio grava su strade deserte e interni pietrificati. C’è un senso di minaccia, di disastri incombenti. L’ambiente rinascimentale diventa la scena di un dramma indecifrabile, di un mistero nella sua luce più piena»: così scriveva Orson Welles. Parole riportate nel catalogo (edito da Marsilio Electa) che idealmente avvicinano il mood di quelle Piazze alle atmosfere del Terzo uomo (il filmcult di Carol Reed del 1949 di cui Welles è protagonista).
Anche se Luca Massimo Barbero preferisce parlare di Hitchcock: «Penso alla Donna che visse due volte, a come da un angolo di una di quelle Piazze possa sbucare fuori un doppio, un manichino, un replicante». Piazze che sono «composizioni formalmente perfette, ma che nascondono tensioni, violenza, il presagio di un accadimento, l’ennesimo enigma». Non a caso Bill Brandt fotograferà de Chirico nel 1965 riflesso in uno specchio, proprio come un eroe noir. Non a caso Man Ray, altro grande fotografo, lo racconterà mentre innervosito lancia sassi nell’acqua e commenta «non me lo sarei aspettato, sembrava così tranquillo» (come un personaggio di Hitchcock).
Nelle otto sale di Palazzo Reale sfileranno i tanti temi artistici scandagliati da quel de Chirico spesso accusato di essere passatista e poco moderno, «che non sopportava nessun altro artista all’infuori di sé, a cominciare dagli Impressionisti e dalle avanguardie, che stimava Picasso e si riteneva un grande sperimentatore». Ci saranno, dunque, i «quadri nei quadri», le «scatole nelle scatole» e tutti gli altri «giochi di prospettiva». E ancora: gli autoritratti; le nature morte con gli elmi e i gioielli barocchi al posto di fiori e della frutta; i manichini che di volta in volta potevano essere Ulisse, Ettore che stringe tra le braccia Andromaca oppure Apollo; gli interni dove crescono pinete; i templi che diventano giocattoli; i grandi nudi sovradimensionati.
Sensibile, saturnino, divertente, scostante: de Chirico ha sempre fatto della sua unicità anche caratteriale un elemento di forza, «riservandosi come tutti i geni di cambiare stile come e quando voleva». Anche per questo la sua pittura, che guarda inizialmente ad Arnold Böcklin e alla sua Isola dei morti, continua a restare fuori del tempo e delle mode. La sua è una Metafisica continua come la definisce Paolo Picozza, presidente della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, nella prefazione al volume di Fabio Benzi Giorgio de Chirico. La vita e le opere (appena pubblicato da La nave di Teseo). Una Metafisica «che lo spinge a navigare nei flutti della modernità e a farsi precursore e ispiratore di tendenze artistiche future».
Da grande sperimentatore de Chirico toccherà, riuscirà a toccare, come il «discepolo» Warhol, tutte le corde della creatività, inseguendo però sempre il sogno del «bel dipingere». Mettendo insieme, durante un suo passaggio newyorkese (1935-1937), la personale alla Pierre Matisse Gallery, la mostra Fantastic Art, Dada, Surrealism al Moma (con otto capolavori scelti da Alfred Barr), le decorazioni per la «Decorations Pictures gallery» e persino una copertina per la patinata «Vogue».