La Stampa, 23 settembre 2019
Ritratto di Roberto Benigni
È un uragano, Roberto, un vulcano di gioia e generosità. Un fiume in piena, un folletto con il dono del sorriso, che ti lascia a bocca aperta e senza fiato, perché tutta quell’incontenibile energia proviene da una creatura piccola e fragile, almeno in apparenza. È un uomo curioso come pochi, e anche questo è segno di generosità: ascolta, commenta, e condivide sempre, con un’umiltà che non smette di sorprenderti.
Non bisogna lasciarsi ingannare dall’aria spensierata, però, sa bene cosa sia il dolore e la privazione, ma anche le sofferenze hanno finito per rinforzare la volontà di credere nella vita, di amarla e celebrarla: la sua intera esistenza è in primo luogo un atto di fede. Non c’è nulla, nei suoi gesti e nelle battute folgoranti, che non riveli una saggezza antica, contadina: quando venne alla Festa del Cinema, raccontò che la morte di Fellini rappresentò per lui qualcosa di inaccettabile e assurdo. «È come se fosse morto l’olio», spiegò, parlando di un elemento vitale, ancestrale ed eterno, che dà sapore alla vita.
Ancora oggi quando parla di Fellini è pieno di commozione e gratitudine per l’opportunità che gli diede nella Voce della luna: «Era il più grande», dice, e poi aggiunge con stupore: «Perché, c’è qualcuno che non è d’accordo?». E sciorina aneddoti meravigliosi, come quando Gustavo Adolfo Rol materializzò una palla sotto gli occhi divertiti e stupefatti di Fellini. «Chissà cosa cercava, da Rol: il divertimento e la sorpresa, certo, ma anche qualcosa di più profondo, che ha a che fare con tutto quello di grandioso e misterioso che né la scienza, né la nostra percezione umana riescono a comprender». Racconta le storie di Rol sorridendo e mimandone i prodigi, e hai la sensazione che anche su di lui abbiano avuto lo stesso effetto, poi torna a parlare di come Fellini perseguisse un itinerario tutto suo, sincero anche nelle fragilità e nelle contraddizioni: «È tipico dei geni».
Devo ammettere che prima di conoscerlo il suo approccio strabordante mi spiazzava, a volte persino mi irritava, ma è bastato un attimo per apprezzarne l’assoluta sincerità e comprendere che non ha mai perso il dono dell’incanto: è il suo segreto e la sua forza. Hai l’impressione che viva con sconcerto il fatto che non tutti abbiano tutti la stessa reazione di fronte alla bellezza di quello che ci circonda, insomma che non danziamo con il suo stesso fragoroso entusiasmo. Questa gioia, che vuole condividere in ogni momento, la vedi anche nel modo in cui manifesta il proprio amore per la moglie Nicoletta, che chiama semplicemente Bella. Ho conosciuto poche coppie che si complementino più di loro, e fa impressione come ognuno si nutra di quanto dica l’altro: uno degli elementi fondanti del loro amore è la volontà di un arricchimento costante e reciproco.
Non ricordo neanche più come l’ho conosciuto, ma era all’epoca della Vita è bella. In quel periodo veniva più spesso negli Stati Uniti, e mi colpirono le sue frequentazioni: sapevo dell’amicizia con Jim Jarmusch e Tom Waits, ma non mi aspettavo l’affettuoso sodalizio intellettuale con Terrence Malick e John Freccero, il maggiore dantista statunitense. Con il primo l’ho visto discutere a lungo del rapporto tra l’arte e la fede, e ci fu un momento in cui Malick pensò di affidargli il ruolo del diavolo in un suo film: un’idea geniale, che in America definiscono casting against type.
Una volta ci ritrovammo insieme in un ristorante di Testaccio, e la discussione riprese come se non si fosse mai interrotta. Mi colpì molto l’importanza storica che attribuirono entrambi al «sì» pronunciato dalla Madonna nel momento dell’Annunciazione: «Un momento straordinario e rivoluzionario» ribadì Roberto, e Malick annuì in silenzio. Quando Malick andò via mi disse: «Terry fa cinema in versi, ed è tra i pochissimi. Ed è sempre illuminante, perché continua a cercare la verità e la bellezza».
È quello che cerca anche lui, e me ne accorsi quando lo vidi discutere appassionatamente di Dante con Freccero, esaltandosi per il fatto che un uomo avesse potuto creare un tale, immenso capolavoro. «Un mio conterraneo», aggiunse una volta con un pizzico di vanità, ma poi cominciò a parlare subito delle proprie origini contadine, ricordando la peculiarietà del nome della mamma, Isolina: «Quello che sono nasce tutto da lì, a Manciano La Misericordia, frazione di Castiglion Fiorentino». Lui stesso ha un secondo nome desueto come Remigio, e lo pronunzia con un sorriso che rivela l’orgoglio di radici che non taglierà mai. Una volta elencò i nomi più coloriti dei borghi della sua terra, fermandosi imrovvisamente su Collodi: uno dei suoi crucci maggiori è stato l’insuccesso americano del suo Pinocchio dopo il trionfo della Vita è bella, ma quel capolavoro è rimasto un punto di riferimento della sua vita, e ha accettato con gioia di interpretare Geppetto per Matteo Garrone, un regista che ammira molto.
L’ho visto riempirsi di tristezza per la morte di Giuseppe e Bernardo Bertolucci («Hanno rappresentato la mia famiglia quando sono arrivato a Roma, e devo moltissimo a Giuseppe per gli inizi della carriera») e provare il piacere della condivisione nei racconti di personaggi celebri che ha conosciuto da quando è diventato una star internazionale: Walter Matthau, con cui aveva stretto un’amicizia importante, e Steven Spielberg, che ha cominciato a frequentare dopo avergli letteralmente camminato sulla schiena la notte degli Oscar. Ogni volta che il regista è in Italia lo invita, a volte a bordo del suo splendido yacht, e una volta gli propose di interpretare Terminal: «Non avevo capito che lo avrebbe diretto lui, ci avrei pensato molto più seriamente prima di dire no».
Il successo lo ha portato a dialogare anche con due Pontefici: papa Francesco lo ha chiamato per congratularsi dopo la trasmissione televisiva sui Dieci Comandamenti, dicendogli «Ma tu lo sai il bene che fai?». Roberto lo racconta sorridendo, e in questo caso lo stupore prevale sull’orgoglio. Qualche anno prima aveva ricevuto i complimenti da Giovanni Paolo II dopo una proiezione della Vita è bella, e la madre stentava a credergli, forse perché ricordava che Roberto aveva passato dei guai per averlo definito anni addietro «Wojtylaccio». «Un’espressione affettuosa del mio toscano, e il Papa era troppo intelligente per non averlo capito. Ricordo l’emozione di quando mi chiamò per la proiezione, il suo arrivo in pantofole con le monache che si inchinavano, facendo una ola, una cosa spettacolare. E poi la mia commozione quando mi disse che il film lo aveva fatto piangere, e la lettera che mi scrisse, bella come quella che un padre può scrivere a un figlio».
Il sorriso si vena di malinconia quando pensa agli amici che non ci sono più, a cominciare da Marco Ferreri, e poi Massimo Troisi, che ricorda con tenerezza, «era geniale, imprevedibile e pieno di poesia». È quello che penso di lui, specie quando ripenso alla scomparsa di Fellini definita come morte dell’olio.