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 2019  settembre 23 Lunedì calendario

La Calabria, quasi un deserto

bagnara calabra (rC)
«Ci voleva quest’acqua. Non è piovuto per mesi». Rosario Morello scruta i filari coltivati a Zibibbo. Tra qualche giorno, sui ripidi costoni che tra Scilla e Bagnara Calabra collegano il Mare Tirreno con l’Aspromonte, si inizierà a raccogliere l’uva. Morello è uno dei pochissimi agricoltori a tempo pieno rimasti sulla Costa Viola. «Qua facciamo una viticoltura eroica», dice con orgoglio. Ai lati della statale 18 terrazzamenti più o meno distinti si alternano a una vegetazione caotica e selvaggia, se non a tratti bruciata dal fuoco. Oltre allo Zibibbo, Morello coltiva Calabrese nero o Nerello, Prunesta, e Malvasia, gli ingredienti del vino rosso locale che dal 2006 i piccoli produttori della Costa Viola riuniti nella cooperativa Enopolis hanno messo in commercio col nome di Armacìa. Un omaggio alle “armacere”, i muretti a secco che lungo questi 20 chilometri di costa da secoli hanno reso possibile l’agricoltura. Un vino estremo, frutto della fatica di ormai solo pochissimi eroi.
Morello, che di Enopolis è il presidente, aveva 10 anni quando ha cominciato a potare le viti. A 13 ha imparato a fare gli innesti. A 20 già costruiva i muri a secco. Adesso ne ha 55. Quando era piccolo, ricorda, i terrazzamenti arrivavano fino al mare. Erano soprattutto le donne a raccogliere l’uva. Si arrampicavano sui terreni impervi, riempivano grosse ceste con anche 50 chili di uva che poi portavano sulla testa o sulle spalle fino al palmento. La pigiavano nelle vasche con delle tavole e lasciavano il mosto fermentare. «Lavoravano notte e giorno», racconta Morello, da fine settembre fino anche al 4 novembre.
Un paio di anni fa i professori del dipartimento di Agraria dell’università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria Giuseppe Modica e Salvatore Di Fazio, insieme al ricercatore Salvatore Praticò, che sul paesaggio terrazzato della Costa Viola ha fatto la tesi di dottorato, hanno fatto una stima. Hanno messo a confronto immagini storiche e rilevamenti satellitari e scoperto che tra il 1955 e il 2014 l’abbandono dei terrazzamenti è stato pari all’85%: da oltre 800 ettari coltivati si passa a 120. Allo stesso tempo, la popolazione di Scilla e Bagnara si contrae e invecchia: da 20 mila abitanti scende a 15 mila.
«Era un sistema che si reggeva sulla capitalizzazione della manodopera familiare», spiega Di Fazio, e su contratti agrari a lungo termine per cui era nell’interesse dell’affittuario avviare la produzione il prima possibile. Adesso la convenienza non c’è. Morello ha da poco finito di sistemare un pezzo di muro a secco. Per smontarlo e ricostruirlo ci sono voluti cinque operai e un giorno. È un’arte, riconosciuta a fine 2018 come patrimonio immateriale dell’Unesco, ma anche un costo. Per cento metri cubi di muro a secco da rifare, Morello ipotizza 10mila euro.
La sua giornata inizia alle 4 del mattino, a volte finisce anche alle 22, quando deve preparare i prodotti da vendere al mercato. Oltre a seguire le vigne, coltiva ortaggi: pomodori, melanzane, peperoni. In questi giorni sta poi potando le foglie alle viti. Finora il caldo non l’aveva permesso, il sole avrebbe bruciato l’uva. «Quest’anno abbiamo lavorato anche con 45 gradi», dice.
In aggiunta ai suoi terreni, Morello si occupa di quelli di altri soci della cooperativa, che se nel 2004 contava un centinaio di soci, oggi ne comprende una sessantina. Gli appezzamenti individuali sono di piccole dimensioni, un quarto di ettaro, e gli agricoltori a tempo pieno si contano su forse due mani. In mezzo ai terreni di Morello, per esempio, c’è quello di una famiglia che se ne è andata in America. Lui si è offerto di prendersene cura, ma non c’è stato verso. Solo che i muri lasciati a loro stessi possono fare grossi danni. Se in funzione, le pareti contengono il terreno mentre le piante pompano fuori l’acqua. Ma quando il sistema viene meno, il rischio di frane aumenta.
Così l’unione fa la forza. In tre anni Enopolis ha recuperato 3 mila metri cubi di muri a secco. Da un’idea del dottore agronomo Rosario Previtera è poi nata l’Armacìa, vino rosso fruttato sui 13 gradi, di cui vengono prodotte 12 mila bottiglie l’anno. «Ne puoi percepire la salinità», spiega Francesca Tramontana, che a Scilla oltre a un bed & breakfast ha un piccolo wine-bar con soli vini calabresi. «La buccia dell’uva si ricopre del sale che evapora dal mare». Anche l’azienda vinicola della famiglia di suo padre, a Catona, partecipa alla cooperativa. Oltre all’Armacìa, medaglia d’oro dei Vini Estremi nel 2013 e nel 2019, produce un altro Igt (indicazione geografica tipica): una miscela di Chardonnay e Greco bianco.
Non lontano dal sentiero del Tracciolino che da Bagnara porta a Palmi, un’altra azienda agricola vuole individuare e certificare lo Zibibbo tipico della zona con la speranza che faccia da traino per una ripresa della viticoltura locale. Rosario Morello ha notato un crescente interesse tra i giovani. A chi mostra volontà, insegna volentieri. Le sue figlie, ad esempio, non intendono abbandonare l’impresa di famiglia. Una studia Agraria, l’altra aiuta il padre in azienda. Altri, come Francesca Tramontana, danno il loro sostegno promuovendo i sapori e l’anima di questa terra. «Io non vorrei andarmene da qui. Noi facciamo di tutto per dare l’immagine che questo posto merita». —