La Stampa, 23 settembre 2019
La guerra dei droni
Il video è impressionante. Si vede uno sciame di piccoli droni, come insetti che potrebbero posarsi sul palmo della mano di un uomo. Corrono velocissimi verso i loro obiettivi, cioè poveri studenti indifesi dentro l’aula di una università, che cercano inutilmente di scappare o nascondersi sotto i banchi. I droni, però, superano ogni ostacolo, aggirano qualunque difficoltà e con una determinazione implacabile raggiungono i target. Quindi li colpiscono alla testa, uccidendoli senza pietà, con precisione millimetrica.
Ultima frontiera degli armamenti
Il filmato di cui stiamo parlando si può vedere sul sito Ban Lethal Autonomous Weapons, e per fortuna mostra una realtà che non esiste. Ancora per poco, però, perché tutti i paesi più avanzati stanno sviluppando le armi autonome, che in parte sono già attive su alcuni teatri di guerra. Al punto che l’Onu ha ospitato una conferenza a Ginevra, per discutere la loro pericolosità e l’eventuale bando. Le armi autonome letali (Laws) sono l’ultima frontiera degli armamenti. Più pericolosi delle bombe atomiche, secondo alcuni esperti, perché potrebbero facilmente sfuggire al controllo degli esseri umani. Piccoli droni, ma anche grandi missili, sistemi di puntamento, mezzi di trasporto, che ricavano l’autonomia dal fatto di essere guidati dall’intelligenza artificiale. Gli esseri umani li costruiscono e li programmano, ma poi loro funzionano da soli. Secondo i nostri comandi, ma fino ad un certo punto, perché una volta azionati la garanzia del controllo non esiste più, se non altro perché in alcuni casi potrebbe mancare il tempo necessario a fermarli. Per non parlare poi degli scenari da incubo, dove questi robot armati decidono di annientarci senza lasciarci possibilità di difenderci.
Simili minacce per ora appartengono alla fantascienza, ma l’attacco lanciato con droni e missili contro la raffineria Aramco di Abqaiq, che Arabia Saudita e Usa hanno attribuito all’Iran, riporta l’attenzione sul loro uso e su come proteggerci. Al momento, queste armi possono essere suddivise grosso modo in tre categorie. La prima è quella dei droni militari di grande raggio come il Kian iraniano, ma anche l’americano Global Hawk usato per la sorveglianza, o il Predator ora rimpiazzato dal Reaper, che sono stati impiegati soprattutto dall’amministrazione Obama per colpire dall’alto e senza rischi i terroristi, decollando anche dalla base siciliana di Sigonella verso la Libia e l’Africa settentrionale. La seconda è quella dei droni più piccoli come il cinese Phantom, o quelli amatoriali e commerciali, che possono essere usati per le consegne a domicilio, ma anche per lanciare attacchi terroristici.
La registrazione obbligatoria
L’Isis li ha adoperati, creando allarme in tutto il mondo. Basterebbe caricarli con sostanze tossiche, liberandole poi su uno stadio durante un evento sportivo o un concerto, per fare una strage. La terza sono appunto le piccole Laws. Negli Usa è obbligatorio registrate tutti i droni che pesano più di 250 grammi, e il totale di un milione di apparecchi in circolazione è stato superato all’inizio del 2018. Un potenziale caos come hanno dimostrato gli avvistamenti che a dicembre hanno paralizzato l’aeroporto di Gatwick, e poi Newark. Provocazioni innocue, magari, che però hanno dato un assaggio della reale pericolosità effettiva di questi strumenti. Le armi della prima categoria sono molto sofisticate e potenti, costano milioni di dollari, e non sono disponibili al pubblico. Da esse in genere ci si protegge con le tradizionali difese anti aeree, tipo radar e missili Patriot. Nel caso di Abqaiq, però, questi strumenti hanno fallito, riaprendo il dibattito sulla loro efficacia. I droni della seconda categoria sono forse i più insidiosi, per varie ragioni: spesso sono troppo piccoli per essere individuati, non ha senso usare armi costose come i Patriot per abbatterli e la legge limita le possibilità di contrastarli.
Quelli della terza sono ancora nella fase della progettazione, ma promettono di essere i più letali. L’industria della Counter-drone technology, anche nota come C-UAS, ha già sviluppato oltre 230 prodotti creati da 155 compagnie in 33 paesi. Entro il 2025 l’industria dei droni civili e militari varrà oltre 21 miliardi di dollari. Perciò quella per difenderci da essi crescerà dai 499 milioni di dollari del 2018, a 2,3 miliardi nel 2024.
Un mercato così interessante, che tutti i giganti del settore lo stanno prendendo di mira: gli americani di Thales Group, Lockheed Martin, Boeing, Raytheon, Dedrone, Liteye Systems, Theiss; i britannici di Blighter Surveillance Systems; Israel Aerospace Industries; gli svizzeri del Security and Counterintelligence Group; gli australiani di DroneShield; gli olandesi di BSS Holland; i danesi di Prime Consulting & Technologies e gli svedesi di Saab AB. Il primo passo per difendersi è scoprire e intercettare il drone. A questo scopo si usano i radar, gli scanner delle frequenze radio, i sensori ottici, e quelli che individuano gli apparecchi grazie al calore o al rumore emesso. Una volta trovati gli obiettivi, le tecniche usate per neutralizzarli vanno dal bazooka SkyWall 100 della britannica OpenWorks Engineering, che spara una rete per catturare fisicamente il drone, al jamming delle frequenze radio o del sistema di navigazione GPS, per far perdere l’orientamento all’oggetto volante e costringerlo ad atterrare o tornare alla base di partenza. L’ambasciatore di Dominica all’Onu, l’italiano Paolo Zampolli, ha chiesto alla FAA americana di approvare sistemi come il britannico Repulse o Skynet dell’azienda taiwanese DronesVision, ma gli studi sono ancora in corso.
Un ostacolo serio sta proprio nella legge. Gli ordinamenti americani equiparano i droni agli aerei, e quindi abbatterli è un reato, a cui va aggiunto il rischio dei danni che potrebbero provocare precipitando in aree urbane. Il jamming delle frequenze radio o del GPS può invece paralizzare le altre comunicazioni civili nell’intera zona dove vengono usati, generando incidenti. Nell’ottobre 2018 l’FAA Reauthorization Act ha dato ai dipartimenti di Difesa, Giustizia e Homeland Security l’autorità di sviluppare sistemi per la protezione dai droni, ma la polizia delle grandi città ha ancora le mani legate.
Sul campo di battaglia o in strada
Il 18 luglio la nave Boxer della marina statunitense ha abbattuto un drone iraniano nello stretto di Hormuz, usando il sistema chiamato MRZR LMADIS. Il Light Marine Air Defense Integrated System è un jammer definito come «la nuova generazione della guerra elettronica».L’esercito Usa ha iniziato i test dei cannoni microwave e del Ballistic Low Altitude Drone Engagement. Blade può individuare, seguire, identificare e abbattere i droni con attacchi elettronici, ad una distanza dove i soldati possono vederli senza binocolo. Un altro prototipo dell’Air Force è il Thor disegnato per aggredire gli sciami di droni. Siamo nell’infanzia di questa era, con sfide diverse da affrontare, a seconda che si tratti di un campo di battaglia, o delle strade di una città. Il futuro però è cominciato, e al momento non è per nulla rassicurante