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 2019  settembre 23 Lunedì calendario

Intervista ad Andrea Giordana

Quando mia madre ci vide recitare insieme nella Signora delle camelie con la regia di Giorgio De Lullo, fu molto critica. Era la sera della prima, venne in camerino dopo lo spettacolo ed esclamò: “Padre e figlio: non vi ho mai visto recitare così da cani!”». Si diverte Andrea Giordana ricordando l’episodio. Figlio di due attori famosi, Claudio Gora e Marina Berti, ma anche fratello di attori e padre di un attore. «Sì, praticamente una dinastia, come la famiglia Barrymore», scherza l’ex Edmond Dantès oggi settantatreenne. «Per favore non ricominciamo dal Conte di Montecristo. È stato un grande successo che oggi, con i social e l’esplosione mediatica, si sarebbe decuplicato, ma io ero acerbo, un ragazzo di 19 anni, prima di allora avevo fatto solo piccoli ruoli...».
Sì, però il celebre sceneggiato del 1966, diretto da Edmo Fenoglio, fu il suo trampolino di lancio.
«Certo! Benedetto sia il Conte che mi ha facilitato la carriera, facendomi esordire da protagonista! Nonostante fossi contornato da colleghi già famosi al cui cospetto ero un pulcino principiante, riuscii a tenergli testa. A pensarci bene era un personaggio western che tornava da lontano, sotto mentite spoglie, e riusciva a vendicarsi di tutti coloro che gli avevano fatto del male. Detto questo, punto e a capo».
Ma il giovane principiante, grazie a due genitori importanti, fu in qualche modo raccomandato?
«Per carità, non volevo assolutamente sfruttare la parentela! Proprio per porre una distanza tra me e loro, avevo mantenuto il cognome vero, Giordana, e non Gora, che mio padre aveva scelto come pseudonimo per un motivo particolare».
Quale?
«Era figlio di un generale, eroe di guerra e, quando intraprese la carriera da attore, la madre gli intimò: “Tu non infangherai l’onore di tuo padre col cinema”».
Insomma, non è stato facilitato, aiutato dalla sua nota ascendenza?
«I miei genitori non mi hanno mai spinto a percorrere la loro strada, ne conoscevano la precarietà: momenti di gloria e ricchezza che si alternano a momenti difficili quando non capita la scrittura giusta. Io ho cominciato per caso, non ho frequentato scuole, ho imparato il mestiere direttamente in palcoscenico e davanti alla macchina da presa. Da piccolo però frequentavo spesso i set o i teatri dove lavoravano loro e il mio primo ruolo mi capitò a 12 anni: un amico di papà mi vide e gli chiese se poteva utilizzarmi per interpretare il re Daniele nel film Erode il grande».
Consigli, suggerimenti da parte loro?
«Nemmeno mezzo e io non mi sono mai preoccupato di piacere a loro, bensì di piacere a me stesso».
E quando esplose il successo in tv erano contenti oppure critici?
«Rimasero molto sorpresi dalle migliaia di lettere che mi arrivavano: si resero conto che il loro ragazzo era entrato nel sistema».
Bello e famoso: chissà quante donne avrà avuto ai suoi piedi.
«Le ammiratrici mi inviavano lettere con i baci, le labbra rosse stampate sulla carta. Addirittura ricordo che una volta, mentre passeggiavo per via Veneto in attesa di un collega, venni letteralmente assalito da un gruppo di ragazzette di una scolaresca, che mi strapparono quasi gli abiti di dosso... ma io non mi sono mai gonfiato come un tacchino, sapevo che tali manifestazioni, piuttosto esagerate, erano dovute esclusivamente al successo momentaneo... Non mi sono mai cullato su certi allori e poi all’epoca ero già fidanzato con colei che sarebbe diventata e che è tuttora mia moglie Nanda: ci siamo conosciuti adolescenti, ci siamo messi insieme mentre andavano in onda le prime puntate del Montecristo e lei ha sempre sopportato le mie fan con grande intelligenza. Non a caso siamo sposati da oltre cinquant’anni, nonostante i nostri mestieri siano all’opposto: io la fatuità dello spettacolo, lei la profondità della psicoanalisi».
Va bene, marito fedele. E magari, una moglie psicoanalista può servire a un attore...
«Non ci ho mai riflettuto, però forse serve... Comunque sono io a coinvolgerla di più nel mio lavoro: ogni copione che mi viene proposto, lo leggo sempre con lei prima di accettare un nuovo impegno».
Ma nel corso della carriera, quanto è stato facilitato dalla bellezza?
«Non nego che l’aspetto fisico abbia avuto il suo peso, ma non è sempre stato vincente e ho addirittura perso parecchie occasioni proprio perché, per determinati ruoli, ero troppo piacente. Certe volte, poi, sono riuscito a ottenere delle parti imbruttendomi molto. Mi sono sempre sentito un attore operaio, costruendo la mia professionalità mattone su mattone. Il cemento della costruzione è costituito dalla mia insaziabile curiosità».
Figlio d’arte
I miei genitori non mi hanno mai spinto a percorrere la loro strada, ne conoscevano la precarietà: ho cominciato per caso, ho imparato il mestiere in palcoscenico
E pensare che voleva fare il direttore d’orchestra...
«È vero. Da ragazzino papà portava me e mio fratello nel suo studio, ricavato nella soffitta della nostra casa a Grottaferrata: era appassionato di musica classica e ci faceva ascoltare i pezzi che amava di più, da Verdi a Puccini, a Mahler... Io mi divertivo a prendere in mano i ferri da lana, con cui mia madre ogni tanto sferruzzava, e facevo finta di dirigere un’orchestra invisibile».
Lasciando da parte Edmond Dantès, quali i personaggi più amati?
«Bè... il Conte Rostov in Guerra e pace e Sant’Ambrogio in Sant’Agostino, due capolavori: prodotti televisivi d’altri tempi, quando si attingeva alla grande letteratura, non le fiction di oggi che, spesso, hanno un risicato spessore culturale. Purtroppo, anche il cinema italiano oggi risente dello stesso problema e stenta a riempire le sale».
Non è un caso, infatti, che attori e registi del grande schermo si convertano al teatro: tra questi, Ferzan Ozpetek debutta nella prossima stagione con la trasposizione drammaturgica del suo film Mine Vaganti.
«È concorrenza sleale, disonesta. Quando sono in declino, invadono il nostro territorio e, diciamo la verità, certi attori che lavorano solo in tv o sul grande schermo, quando esordiscono sul palcoscenico sono spesso imbarazzanti. Ora non dico che questo sia il caso di un regista importante come Ozpetek, ma certo la cosa fa pensare. Un dato è certo: nonostante il disinteresse totale da parte dei politici per la cultura, le sale teatrali sono affollate. Ma si sa, la politica attuale è avvilente sotto tutti gli aspetti: basta assistere a certi deprimenti spettacoli dove i nostri illustri rappresentanti politici litigano, si aggrediscono, prendendosi a parolacce. E allora dico a mia moglie: andiamocene all’estero, poi prende il sopravvento la rassegnazione».
E intanto, torna in teatro nel prossimo inverno con Le ultime lune di Furio Bordon, con Galatea Ranzi e con il suo unico figlio Luchino, quarantenne...
«Gli abbiamo dato questo nome, perché il suo padrino al battesimo fu Visconti: mio grande amico».
Condividere il palcoscenico con un parente tanto stretto può essere un rischio?
«Al contrario: quello che non ho goduto di lui quando era piccolo, lo godo adesso. Sono stato un genitore poco presente, lo ammetto: il lavoro, le tournée mi portavano lontano da casa ed è stata Nanda a fungere da padre e da madre. Tra me e Luchino un dialogo aperto, assoluto... anche se, quando per la terza volta gli ripeto un consiglio tecnico, sbuffa dicendo “papà ho capito, non rompere!”».
Insomma, la dinastia continua.
«Sì, ma lui fa il suo percorso, io il mio... ogni tanto guardandomi indietro».
L’occasione mancata?
«Quando Orson Welles mi voleva in un suo film. Non conoscevo l’inglese: un po’ perché non avevo mai tempo di applicarmi e un po’ per pigrizia, non l’ho mai studiato seriamente e questo era un grosso ostacolo. Mi consolò il fatto che poi comunque quel film non si fece mai».
L’errore più imperdonabile?
«Mi voleva Strehler: sembra una battuta ripresa dall’ormai famoso spettacolo cult che si intitola proprio così, ma è la verità. Il maestro del Piccolo mi voleva nel Campiello... declinai l’invito. In quel periodo avevo talmente tante proposte che... ma mi sono amaramente pentito».
Un sogno ancora irrealizzato?
«Forse avere un teatro, una “casa” da poter gestire e, magari, prima di esalare l’ultimo respiro, riesco a esaudire questo mio desiderio».
Le ultime lune parla di un uomo nella sua stanza: attende, osserva, ricorda, sogna. È solo, stanco, privato del suo futuro. È un uomo vecchio.
I baci
Le ammiratrici mi inviavano lettere con i baci, le labbra rosse stampate sulla carta... Ma io non mi sono mai gonfiato come un tacchino
«Già... la vecchiaia. Quando si va avanti negli anni e si raggiunge la sospirata pensione, si esclama: che bello, adesso posso fare viaggi, mi iscrivo al circolo di golf, oppure gioco a carte con gli amici... Ed ecco che piombano gli acciacchi: che puoi fare più? Io penso alla mia vecchiaia come a un periodo in cui dare un senso alla vita, ma domani ci sarò ancora? Aveva ragione Carmelo Bene che diceva: la vita è il coma prima della morte».