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 2019  settembre 22 Domenica calendario

Su "Le verità nascoste" di Paolo Mieli (Rizzoli 2019)

Finalmente ci siamo accorti, da cittadini, da consumatori, che le fake news sono veleno. Le contraffazioni della realtà hanno danneggiato in giro per il mondo più d’una elezione (e che elezioni!), generando rancore e rabbia non ancora smaltiti, orientando in maniera fasulla il sentiment degli elettori.

Ma se la contraffazione delle notizie venisse da lontano, se fosse cioè annidata in centinaia di testi di storia e riguardasse decine e decine di momenti chiave della vicenda umana, che cosa potremmo fare oggi per correggere il passato, restituendo a Cesare quel che sarebbe dovuto essere di Cesare? La ricetta, Paolo Mieli non la dà. Ma nel suo nuovo, affascinante libro (Le verità nascoste, in uscita il 24 settembre per Rizzoli) indica «trenta casi di manipolazione della storia» su cui vale la pena soffermarsi per capire che accanto alle fake news, pericolosa realtà ormai nota, c’è un fenomeno subdolo, di dimensioni gigantesche e di età antica, che potremmo chiamare fake history.

Gli episodi allineati da Mieli nel suo lavoro vanno, solo per fare qualche esempio, dalla vera statura politica e umana di Tarquinio il Superbo, ultimo re di Roma, all’inattesa mancanza di esorcismi nel Medioevo; dall’assenza di visione in Spartaco, schiavo rivoltoso ma non rivoluzionario, al reale rapporto tra Nikita Krusciov e Palmiro Togliatti; dall’irrituale «Non ci sto!» scandito il 3 novembre del 1993 in tv dal presidente Oscar Luigi Scalfaro (sul quale aleggiava il sospetto di uso improprio dei fondi riservati dei servizi segreti) al ruolo doppio che ebbe Ciceruacchio, al secolo Angelo Brunetti, capopopolo a Roma nel 1848, nemico-amico di Pio IX.

Nelle pagine di Le verità nascoste (omaggio al bel film di Robert Zemeckis, citato nell’introduzione) si celano tre tipi di manipolazione, che danno titolo alle tre sezioni che compongono il libro: le verità indicibili, le verità negate, le verità capovolte.

Tra imbarazzi, alterazioni, nascondimenti e falsificazioni, ce n’è per tutti. Un caso molto interessante, la cui eco sentiamo fino ai nostri giorni, è quello dell’onestà dei gerarchi fascisti. «Nel 1975 — riferisce Mieli — durante uno spettacolo a Genova, Walter Chiari (che in gioventù aveva aderito alla Repubblica sociale italiana) lanciò una provocazione: “Quando fu appeso per i piedi a piazzale Loreto, dalle tasche di Mussolini non cadde nemmeno una monetina (…) Se i nuovi reggitori d’Italia subissero la stessa sorte, chissà cosa uscirebbe dalle loro tasche!”. La battuta provocò un grande applauso a dispetto del fatto che la città fosse medaglia d’oro della Resistenza (…). Da allora la battuta di Walter Chiari divenne un luogo comune della destra e, più in generale, dei settori qualunquisti e conservatori dell’opinione pubblica italiana».

Ma davvero i gerarchi erano onesti? Mieli cita a questo punto il lavoro certosino di due storici, Mauro Canali e Clemente Volpini, che sono andati — come suol dirsi — a fare i conti in tasca ai gerarchi. E le sorprese sono consistenti. A cominciare dai risultati della commissione d’inchiesta voluta da Badoglio nell’agosto del ’43. Saltarono fuori ricchezze impressionanti con conseguenti «fughe rocambolesche, rotoli di banconote nascosti nell’acqua degli sciacquoni, arresti eccellenti, favolosi patrimoni in ville, tenute, palazzi e castelli. (…) Gran parte dei fascisti di primo piano a partire da Mussolini e dai familiari della sua amante Claretta Petacci si arricchirono in modo considerevole». Ma il vero Paperone del regime risultò essere Costanzo Ciano, padre di Galeazzo. «Alla sua morte — riferisce Mieli — Vittorio Emanuele III aveva confidato a Mussolini che l’uomo aveva accumulato un patrimonio di circa 900 milioni». Altro miracolato fu Roberto Farinacci, ras di Cremona, squadrista, antisemita, filonazista. La commissione d’inchiesta accertò, dopo 13 anni di lavoro, che il suo patrimonio, a valutazione 1949, ammontava a 614 milioni e 627 mila lire. Per dare un’idea, un senatore del Regno guadagnava 20 mila lire al mese, un maestro intorno a diecimila e un operaio 4.238 lire.

Un altro svelamento sul terreno della cultura popolare riguarda la Spagnola, tremenda pandemia che tra il 1918 e il 1920 uccise tra 50 e 100 milioni di persone, vale a dire — nota Mieli — tra il 2,5% e il 5% della popolazione mondiale d’allora. La verità nascosta da sempre è che di spagnolo, quella epidemia d’influenza, non aveva quasi niente e che in ogni caso, visto il suo terribile effetto sul pianeta, non si spiega come mai nei libri sul Novecento sia pressoché assente.

La storia vera è ben altra, e comincia — racconta Mieli — negli Stati Uniti (da poco entrati nella Prima guerra mondiale) «la mattina del 4 marzo 1918», quando «il ranciere Albert Gitchell si presentò all’infermeria di Camp Funston, in Kansas, con mal di gola, febbre e mal di testa. All’ora di pranzo l’infermiera si trovò a gestire più di cento casi simili. Metaforicamente parlando — riferisce Mieli citando la storica Laura Spinney — cinquecento altri milioni di persone seguirono Albert Gitchell in infermeria».

Il male, dunque, partì dal Kansas. Come ebbe allora in sorte il nome di Spagnola? Va detto che si viaggiava per mare, le navi americane andavano in guerra cariche di soldati con destinazione l’Europa. Cosicché, di lì a poco, di porto in porto la pandemia si estese dall’Europa all’Asia (fu l’India il Paese con più morti). Ma nessuno aveva dato un nome al male né comunicava la reale contabilità di morte per non deprimere le truppe ancora impegnate nella guerra contro gli austro-tedeschi. I francesi, per esempio, la chiamavano col nome in codice maladie onze (cioè undici). Nessuna capitale si salvò, neppure Madrid. In quei giorni lì andava in scena un’operetta che aveva come clou una canzonetta, Il soldato napoletano.

A un medico spagnolo venne in mente di battezzare con questo nome (non si sa perché) la mortale influenza. «Dopo di che — annota Mieli — tutti i Paesi lontani dal teatro di guerra accusarono qualcun altro di essere all’origine della malattia. In Senegal fu l’influenza brasiliana. In Brasile, la tedesca. I danesi la chiamarono il male del sud. I polacchi malattia bolscevica. I persiani diedero la colpa ai britannici, a Tokyo misero sotto accusa i lottatori, poiché il primo focolaio si sviluppò a un torneo di lotta giapponese, e la chiamarono malattia del sumo. Poi, quando ci si rese conto che si trattava di un’unica pandemia globale, fu adottato il nome che le avevano dato i Paesi vincitori della guerra e si chiamò Spagnola».