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 2019  settembre 22 Domenica calendario

UNO, DIECI, MILLE VERDONE - IL RAPPORTO CON IL PADRE, IL CEFFONE PRESO A PRAGA, LA SOLITUDINE DI ALBERTO SORDI, IL RITIRO DALLE SCENE (“NON VOGLIO CHE SIA IL PUBBLICO A DIRMI BASTA”) E LE SOFFERENZE D’AMORE: “LIVIA AZZARITI NON MI SI FILAVA DI PEZZA, MA DA RAGAZZA ERA DI UNA BELLEZZA SCONVOLGENTE. UNA SERA LA PORTAI AL CIRCO. PARTIMMO MALE. MI CHIESE: “PERCHÉ SIAMO VENUTI AL CIRCO?”. RISPOSI MINIMIZZANDO: “NON È DIVERTENTE?”, E LEI SECCA: “NON MI PARE”. PERSO PER PERSO TENTAI DI STRINGERLA E…” -

Forse non lo sai ma pure questo è amore: «Ho 14 anni e sono invitato a una festa in un quartiere popolare di Roma. Dopo aver ascoltato i Beatles, Celentano e i primi Rolling Stones, nell’appartamento di Valle Aurelia è l’ora dei lenti: sto ballando con una ragazza che mi piace molto e tutt’a un tratto qualcuno spegne la luce. Lei mi dà un bacio in bocca. È la mia prima volta. “Dammene un altro”, le dico. “Dammelo te stavolta”, risponde. Eseguo timidamente e lei si ritrae: “O me lo dai bene o non me lo dai per niente”.

Ubbidisco e in quel momento scopro l’eros, il sesso e tutto un mondo meraviglioso. Prima di andarmene le chiedo il numero di telefono, lei me lo nega: “Ci dobbiamo fermare a questi baci, siamo troppo giovani”».

Carlo Verdone sostiene di avere un’ottima memoria selettiva: «Sono fortunato, ho rimosso le cose brutte, ma non ho dimenticato nulla delle belle», e un rapporto quasi olfattivo con la nostalgia: «Ogni tanto sento un odore e mi riappare il passato. Il profumo dei nostri armadi, quello della casa che mia madre faceva riverniciare durante l’estate o l’altro, inconfondibile, dei libri di mio padre». Mario, il professor Verdone: «L’uomo grazie al quale ho visto e conosciuto ambiti davanti ai quali da solo non sarei mai arrivato. Papà mi diceva sempre: “Mettici la poesia, Carlo. Mettici un po’ di poesia”».

Cosa intendeva? «Che la commedia, senza la poesia, non vale niente. “Ridere non basta”, diceva».

Aveva ragione? «Completamente. La poesia è l’anima della commedia, anche e soprattutto quando restituisce alla commedia un sapore malinconico».

La solitudine, l’amore non corrisposto, le città deserte d’estate, l’incomunicabilità. Nei suoi film, fin dagli esordi, al sorriso si accompagna la malinconia. «Perché la malinconia è un mio tratto caratteriale e, come la memoria, può essere una carezza dolcissima. Quando sono da solo, magari in Sabina, circondato dal silenzio, dai libri e dalla tranquillità, nel ricordo scorre un film meraviglioso».

1977, Teatro Alberichino, al suo esordio dopo gli anni dei teatrini off, lei va in scena per un solo spettatore. «Il critico Franco Cordelli. Non sapevo chi fosse, ma un paio di giorni dopo uscì sul giornale un articolo entusiasta. Iniziò tutto lì. Lo spettacolo non avrebbe dovuto neanche prendere il via. Mancava il denaro e io mi ero indebitato per 200.000 lire, tanti tanti soldi, una cifra enorme».

Come mai? «Daniele Formica, il mio compagno d’avventura, avrebbe dovuto dividere i costi con me, ma si tirò indietro a pochi giorni dal debutto. Anni dopo venne a chiedermi scusa sul set di Bianco, rosso e Verdone. Non ce n’era bisogno. “Non preoccuparti”, gli dissi, “sono decisioni che si prendono in un istante”. Ho sempre considerato il rancore il più inutile dei sentimenti».

Chi la convinse a recitare comunque in Tali e quali? «Mia madre: “Se non sali sul palco ti prendo a calci in culo”, sibilò. Per quel che riguarda il mio lavoro, nel trovare il coraggio di fare scelte importanti, devo tutto a lei. La persona più importante della mia vita. Una donna che aveva tante fragilità e debolezze, ma sapeva anche essere forte e aveva intuito che possedevo un talento. Con affetto, baci, ironia e qualche invito secco mi incoraggiava ad andare avanti e mi diceva implicitamente “dai che ce la fai”.

Mamma possedeva un’arte affabulatoria ed era molto creativa. Andavamo insieme al cimitero, e camminando per i viali mi raccontava ogni cosa delle donne e delle famiglie che lì erano ospitate. La accompagnavo a pagare i conti dal fornaio, dal panettiere, dal lattaio e lei, che era anche una formidabile osservatrice, posava sempre lo sguardo su qualcuno: “Carlo, guarda che faccia buffa che ha quello”, e io guardavo. Se sono stato un pedinatore di italiani restituendone tic, nevrosi e manie, la prima pedinatrice in famiglia è stata sicuramente lei».

Suo padre invece? «Mio padre è stato una figura importante, mi ha donato lo stupore, mi ha fatto viaggiare, mi ha insegnato tanto. Prendeva me e mio fratello e ci portava all’Accademia d’arte: “Adesso vi spiego cos’è un quadro astratto”. E lo faceva davvero. Ci ha fornito strumenti fondamentali, ma ci ha anche portato allo stadio e a giocare a pallone al Circo Massimo sotto il sole cocente. Era un padre vero, nostro padre».

Un padre severo? «Giusto. È vero che all’università mi bocciò in Storia del cinema, che io gli avevo chiesto di interrogarmi su Fellini e che lui mi chiese di Dreyer e Pabst, ma è pur vero che io di Pabst non sapevo nulla e che in aula la gente aveva cominciato a mormorare severa: “È parente, è parente, è uno schifo, è uno schifo”. Il clima era, per così dire, viziato (Ride). Tornai a casa e gli dissi “Papà, mi hai fatto fare una figura di merda”, e lui, senza emozione: “Carlo, abbi pazienza, non volevo si pensasse a un trattamento di favore”.

Una volta andammo in viaggio a Praga. Lui non aveva la tessera del Pci, ma era uno studioso molto apprezzato per il suo rigore, amava il cinema bulgaro, quello cecoslovacco e russo e con quel mondo aveva ottimi rapporti. Finito il viaggio, vidi una fila di bandierine sul cornicione dell’albergo e decisi di rubarne una. La misi in valigia, scesi nella hall e venni fermato da un agente in borghese. “Open the baggage”, mi disse con tono metallico. Aprii il bagaglio e spuntò la bandierina. Avrei potuto passare un guaio serio, ma intervenne papà».

Mise una buona parola? «“Sei stato uno stronzo”, disse alzando la voce, “sali e rimettila immediatamente al suo posto”. Poi mi tirò uno schiaffone mostruoso. Sentivo che stava esagerando per aumentare la drammaticità, che si incazzava platealmente per far capire all’altro che era indignato. Il rumore dello schiaffo me lo ricordo ancora. Così bene che misi la scena anche ne Il mio miglior nemico, circa trent’anni dopo».

E l’Alberichino, quella foto sgranata di quarantadue anni fa, se la ricorda? «Mi ricordo le cantine umide di piazza Cavour all’alba degli anni ’70, i Bergman portati in scena con il vapore che usciva dalla bocca per l’umidità e il freddo, i chiodi arrugginiti finiti dentro i piedi durante la recita senza potersi fermare, le tasche vuote e i tranci di pizza freddi mangiati appoggiando la Lambretta accanto a qualche trattoria a buon mercato. Naturalmente ricordo anche l’Alberichino. A volte mi sembra incredibile. E mi chiedo: Ma chi resiste per 42 anni? Chi riesce a lavorare per quattro decenni di seguito provando sempre a reinventarsi senza cadere?».

Si è rivelato il segreto? «Semplice. Non mi sono mai sentito arrivato. Ho sempre visto i miei film come esami da affrontare e superare volta per volta. È stato faticoso. Logorante. La tentazione di dire “ma io cosa devo ancora dimostrare?” era forte».

E come l’ha allontanata? «Capendo che era proprio così: devi sempre dimostrare qualcosa. Vai avanti con l’età e la tua maschera muta esattamente come cambia tutto intorno a te. Non sono più quello di Borotalco o di Bianco, rosso e Verdone, mi sono dovuto adattare alle epoche anch’io».

Ha mai temuto di non farcela? «Ogni santa volta. Negli ultimi otto anni, poi, mi è venuta proprio una gran paura. Mi sussurravo sempre: “Forse questa volta non ce la faccio”, “Forse questa volta il film lo sbaglio”».

Il pubblico l’ha rassicurata con i risultati. «Credo mi abbiano visto come uno della porta accanto. Una persona capace di raccontare le emozioni che provavano anche loro. Tante cose del successo rimangono oscure a partire proprio dal meccanismo che si instaura tra te e il pubblico, però c’è una cosa che tiene in piedi tutto».

Cosa? «Chi ti osserva deve vedere oltre l’attore. Sentire che ha di fronte a sé una persona sincera, onesta e magari, anche se dirlo suona un po’ anacronistico, umile. Non ho mai osato sostenere di essere l’erede di Alberto Sordi per esempio, non mi sarebbe mai venuto in mente».

Lo disse lui. «Lo disse a me, che resterò sempre uno spettatore incantato dalla sua arte. Sordi era un attore fantastico. Addirittura superbo nei film in bianco e nero, quelli che amo di più».

Cosa gli invidia? «L’aver attraversato tanti decenni veramente importanti dal punto di vista storico: la guerra, il dopoguerra, il boom economico, le tensioni sociali degli anni ’70».

Lei ha iniziato in un altro quadro. «Mi sono trovato davanti alla crisi della coppia, al crollo della famiglia, alla donna che prende il potere nel sodalizio e costringe il maschio definitivamente in un angolo. Il mio non era più il cinema dei seduttori alla Gassman o alla Tognazzi, ma quello degli uomini sconfitti che hanno di fronte una donna che non capiscono più. Noi siamo diventati adulti con un dramma, con un trauma».

Quale trauma? «Il femminismo è stato una scossa che ci ha destabilizzato. Ha stravolto i ruoli. Ecco perché poi siamo stati gli impacciati. Non era un’interpretazione, né una scelta: era la realtà. Ci sentivamo veramente così: goffi, sorpresi, detronizzati».

Sordi sullo schermo non era certamente percepito come tale. Lei gli offrì in Troppo forte uno dei suoi ultimi ruoli felici: un avvocato dal nome farsesco, Pignacorelli in Selci, che difende il protagonista coatto del film e poi improvvisamente perde il senno e lo manda in malora. «Anche se forse Sordi sulla parte aveva calcato troppo la mano esagerandone il carattere. Provai in tutti i modi a farglielo capire, ma non ci fu verso. Allora chiesi aiuto a Sergio Leone, il produttore di quel film e di Un sacco bello, il mio esordio cinematografico. “Guarda il materiale Sergio, poi dimmi che ne pensi. A me sembra troppo macchiettistico, deve far ridere sì, ma non in quella maniera”. Sergio vide il girato, disse: “Così non va, sta a ffà Oliver Hardy”, e poi assicurò: “Ce penso io, nun te preoccupà”. La mattina dopo prese da parte Alberto e Sordi apparentemente gli diede retta: “Hai ragione, va bene, cambio impostazione”».

E la cambiò? «Neanche per sogno, anzi accentuò il carattere che gli aveva dato. A quel punto cedemmo. Sordi era comunque Sordi».

Negli ultimi anni il grande Sordi recita in film che non sono all’altezza della sua parabola. Come mai secondo lei? «Non aveva una moglie, non aveva un’amante, aveva qualche amico sì, ma non poi così stretto. Non aveva altro, Sordi: soltanto il suo lavoro e il suo pubblico, cosa altro avrebbe potuto fare Alberto? Stare in casa e fare una vita da monaco? No, era chiaro che sarebbe morto facendo film fino alla fine dei suoi giorni. Non poteva pensare minimamente di fermarsi. Ci sono persone che hanno passioni tra le più diverse: a chi piace scrivere, a chi pitturare, a chi andare in barca, in campagna o sulle vette. Lui no. Sordi ha vissuto per la gente e per se stesso».

Quante persone del mondo del cinema ha conosciuto con una propria interiorità capace di bastare a se stessa? «Poche, per non dire pochissime. Mi viene in mente un amico di mio padre, Manoel De Oliveira, ma parliamo di un regista coltissimo che ha girato fino a cent’anni, un uomo di un’altra epoca, di un altro periodo. L’altro giorno parlavo con Rocco Papaleo e riflettevo ad alta voce: “Però che storia triste ha il mondo del cinema, tutti i grandi autori muoiono in una disperazione che sa di solitudine o depressione”. Come raccontano quelle belle monografie trasmesse da Sky su Bergman o Mastroianni, a essersene andati così sono stati in molti».

Come mai secondo lei? «Non hanno coltivato altre passioni o hanno trascurato famiglia o figli. Un errore fatale. Quando ho archiviato C’era un cinese in coma, un film che con mio grande dispiacere, magari per un titolo sbagliato, non era stato compreso, mi resi conto che per anni ero stato troppo preso dal mestiere e stavo per commetterlo anche io. Capii che non c’era miglior modo di non perdere più una battaglia che non parteciparvi proprio e saltai un giro.

Non avevo paura di aver smarrito il talento, ma temevo di essere a un passo dal perdere qualcosa di molto più importante. Mi fermai per due anni e mi dedicai alle persone che amo. Mi aiutò Gianna, la mia ex moglie, con un consiglio prezioso: “Parti con Paolo e Giulia, solo voi tre, nessun altro. Ritroverai i tuoi figli e ti ritroverai”. Aveva ragione, Gianna. Facemmo un viaggio lungo e magnifico alla scoperta di noi stessi e del nostro rapporto. Tornammo cambiati, da allora non ci siamo più persi».

Ha mai pensato al momento dell’addio? «Ci ho pensato e ne ho parlato anche con i miei figli. “Guardate”, ho detto, “non so quando finirà questa cosa mia, però non voglio che sia il pubblico a dirmi basta, sarò abbastanza intelligente da capire quando è il momento di togliere il disturbo”».

E sarà un giorno triste? «Sarà un gran giorno. Sarà una festa. Per prima cosa ringrazierò dio. Volevo girare e interpretare dei film, l’ho fatto, sono stato veramente fortunato». (Sul telefono di Verdone arriva la notizia della nomina a membro dell’Academy. Verdone accoglie il tutto senza enfasi: timidezza e pudore).

Nella sua vita è stato coraggioso? «Penso di sì. Quando mia madre è stata colpita da una bruttissima malattia neurologica, per esempio, sono stato costretto a esserlo, e mi sono riscoperto leonino. Ho lottato, non sono riuscito a ottenere un risultato e alla fine ho perso. Ero distrutto, ma sereno. Ce l’avevo messa tutta. In quel periodo persi totalmente le fede, vedendo come il destino si era accanito su una donna di una bontà infinita. Mi aiutò molto monsignor Tonini, che conobbi per un’intervista a due. Ci frequentammo e mi illuminò sul mio smarrimento. Grande uomo di fede vera».

Se dovesse scegliere un aggettivo per descriversi? «Sensibile. Ed essere sensibili non è una passeggiata. È faticoso. Ha un prezzo. Servono impegno e pazienza. Non c’è un artista che sia in totale equilibrio. La sensibilità porta anche alla sofferenza».

Parla anche di lei? «Certo. A volte mi sento molto fragile e debole, altre strano o diverso. La persona sensibile è destinata a essere inquieta di più perché percepisce tutto in maniera maggiore, gode per piccole cose che gli altri magari non vedono, ma prova contemporaneamente dolori intensi e instabilità».

Anche in amore? «Il dolore fa parte della dinamica amorosa e soffrire per amore, anche se non in modo parossistico, è importante. Significa che hai un’anima, una sensibilità, un cuore che non è solo un muscolo. Quelli che fanno i duri, i playboy che fanno la raccolta delle figurine e delle scopate dicendo “questa me l’ha data, questa non me l’ha data” sono persone mediocri, di una solitudine straziante».

Sofferenze amorose memorabili? «Quasi tutte a sfondo platonico. Livia Azzariti non mi si filava di pezza, ma da ragazza era veramente di una bellezza sconvolgente, da perdere la testa. Mi ricordo i patemi d’animo, le insicurezze, i vani piani per conquistarla. Una sera uscimmo e la portai al circo. Partimmo male. Mi chiese: “Perché siamo venuti al circo?”. Risposi minimizzando: “Non è divertente?”, e lei secca: “Non mi pare”. Io avevo un padre patito del circo e vedevo acrobati e domatori come parte di un fenomeno storico, lei molto meno».

Come finì? «Perso per perso tentai di stringerla, di allungare il braccio intorno al collo, di cercare un contatto. Alla seconda volta che mi scostò la mano capii che non era aria. Ci ho sofferto perché mi piaceva tanto, Livia. In un certo senso, mi innamoravo sempre dello stesso fototipo di ragazza. Bionda o castana chiara, di aria gentile, di bell’aspetto. Un’altra che mi fece soffrire come un cane fu Paola Zanuttini che ora è una brava giornalista di Repubblica. Il teatro del disastro fu Anzio».

Mare, tramonti, isole sullo sfondo. «Paola era un tipo difficilissimo e io cercavo di essere simpatico e rampante, scimmiottando i figli della Roma bene che ad Anzio villeggiavano per mesi e mesi. La portavo sull’Ital-Jet e intanto aspettavo, fremendo, di dichiararmi. La sera in cui finalmente mi decido elaboro una strategia minuziosa: “Andiamo davanti al porto”, le dico. “Sentiamo le onde e le rivelo tutto, poi come va, va”, mi ripeto. Arrivo in banchina con il motorino lanciato a tutta velocità, freno e la ruota slitta sul brecciolino. I sassi ci fanno cadere per terra e l’orologio del mio padrino della Cresima va in acqua. Ma il peggio, se un peggio a quel punto era possibile, è che Paola si sbucciò un ginocchio. “Mi fa troppo male la gamba”, stabilì, “riportami a casa”. Storia finita così, senza gloria».

Ogni tanto si è innamorato anche delle sue attrici. «Sono stati dei colpi di fulmine: passando tanto tempo insieme capita. Io e Claudia Gerini abbiamo avuto un flirt, ma eravamo soli tutti e due ed eravamo entrambi abbastanza incasinati. È finita ma siamo rimasti molto amici: di sicuro io e Claudia siamo due persone che per carattere non avrebbero assolutamente potuto stare insieme a lungo. Lei non la freni».

Di coppie e villeggiatura parla anche il suo nuovo film. «L’ho girato in Salento, tra il bianco accecante delle masserie, le scogliere a picco sul mare e i colori stupendi di quest’angolo di Italia che conoscevo pochissimo. È un film corale e dalle sensazioni che ho mi sembra di aver fatto un bel film. Potrebbe far ridere e potrebbe far riflettere: sono le stesse sensazioni che avevo prima di Maledetto il giorno che t’ho incontrato e di Compagni di scuola».

Sensazioni buone. «Il solo fatto che sia andato fuori Roma per girare è un buon segno. Ogni tanto per non morire e non rompersi troppo i coglioni c’è bisogno di cambiare scenario. Al cinema è più facile che nella vita privata. Sa qual è il problema di oggi? Che le coppie durano molto poco e sembra sempre che i sentimenti si debbano aggiornare come si aggiorna un’applicazione scaduta. Ma l’amore non è un telefonino. Amare una persona è un lavoro. Anche impegnativo. Se non lo consideri anche così si romperà presto tutto».

È stato più importante l’amore o l’amicizia? «A volte tra amore e amicizia ho scelto la seconda opzione. A 15 anni persi il mio migliore amico, Francesco Anfuso, un ragazzo di estrema destra figlio di un ambasciatore vicino al ventennio, amico intimo di Mussolini... La mia fidanzata dell’epoca era di sinistra e mi chiese di scegliere tra lei e lui. Scelsi lui. E le dissi sul muso: “Non solo preferisco Francesco, ma di fronte a questi ricattucci, a te lo preferisco mille volte”.

Ci volevamo molto bene io e Francesco e avevamo stretto un patto: nella nostra frequentazione non avremmo mai parlato di politica. Così avvenne. A lui piacevano lo stesso cinema underground e la stessa musica che amavo anche io e andavamo veramente d’accordo. Quando ero in vacanza mi dissero che era morto in Jeep, per salvare un cucciolo di cane lupo. La macchina su cui viaggiava nel Parco Nazionale d’Abruzzo era andata fuori strada, e per proteggere il cane Francesco era finito con la testa sull’unico spunzone di roccia di tutto il prato. È stato il mio primo enorme dolore giovanile».

Quanti amici veri ha Carlo Verdone? «Tanti. Oddio, forse tanti è la parola sbagliata. Perché quando dici che hai tanti amici poi significa che non ne hai nessuno. Diciamo che una decina di veri amici li ho e mi sono preso il lusso, la libertà e il piacere di mantenerli nel tempo». 

Cos’è per lei la libertà? «Il testo di una canzone. Un’utopia. Un’illusione. La vera libertà non esiste e nessuno di noi è veramente libero. Non sono libero io e non è libero lei. E poi c’è sempre l’imprevisto, l’agguato del destino, l’imponderabile. Per me, da questo punto di vista, tra amici scomparsi all’improvviso e malattie inattese di persone a cui voglio bene, è stato un anno terribile. Sa qual è la verità?».

Qual è? «Che fare progetti è necessario per coltivare una speranza. Ma è purtroppo ridicolo e infantile. L’unica cosa seria che si può fare è vivere alla giornata come se fosse il tuo ultimo giorno. Così si dovrebbe fare e così provo a fare io».