il Fatto Quotidiano, 22 settembre 2019
Raf racconta i suoi 60 anni
Il reale “self control” Raf lo ha scoperto al confine dei sessant’anni, “mentre negli anni Ottanta proprio non mi trovavo, mi sentivo fuori posto, quasi imbarazzato”. Raffaele Riefoli, nato il 29 settembre del 1959 a Margherita di Savoia, apre la porta di casa con cappellino in testa, maglietta e pantaloncini, stretta di mano accorta, di chi con le mani ci lavora e deve preservarle; ha uno sguardo lieve, differente da quanto dichiara la carta d’identità, e il tempo gli ha offerto la possibilità di conoscere il valore dello stupore, perché con lo stupore ha imparato a conviverci (“diventare una popstar non era nella mia indole”).
Ogni tanto accanto a lui si siede la moglie, Gabriella Labate, insieme da oltre trent’anni, e nonostante il tempo passato e condiviso si chiamano ancora “amore”, e non per abitudine (“a lei devo veramente molto”). Raf in carriera ha inanellato una serie lunghissima di successi nazionali e internazionali, a partire proprio da Self control (1984), la generazionale Cosa resterà degli anni 80, quindi Sei la più bella del mondo e la complicata Infinito; da mesi è in tour con Umberto Tozzi (“amico da una vita”). Mercoledì l’ultima data all’Arena di Verona.
La sua carriera è iniziata con suoni punk.
Alla fine degli anni Settanta mi affascinava la musica straniera, soprattutto quella estrema che arrivava dall’Inghilterra: in quel contesto mi sentivo a mio agio.
E poi?
Un giorno passeggio per Ponte Vecchio e incontro un ragazzo che suona il country: era Ghigo Renzulli (storico leader dei Litfiba con Piero Pelù), e tra una canna, una birra e un brano strimpellato siamo diventati amici.
Avete fondato i “Cafè Caracas”.
E siamo arrivati ad aprire il concerto dei Clash (band punk per eccellenza), miei idoli del tempo, li ascoltavo a ripetizione.
Deluso dalla conoscenza?
No, solo un po’ stupito: Joe Strummer (leader del gruppo) mi ha chiesto tutto delle Brigate rosse, era fissato, una specie di interrogatorio serrato.
Appassionato.
Non credo fosse stima o condivisione, anche se allora spesso indossava magliette con sopra la stella rossa.
Sapeva rispondere?
Non era un argomento che mi esaltava, ma ero preparato: da sempre leggo di tutto, da sempre credo sia fondamentale avere una coscienza civile, anche se non ho mai pensato di dedicarmi alla politica.
“Raf” all’estero può venire frainteso.
Lo so, è l’acronimo di Rote Armee Fraktion (terroristi tedeschi), e un po’ mi dava fastidio, tanto che in Germania la casa discografica è stata costretta ad aggiungere una “f” al nome per evitare equivoci: per loro sono Raff.
Dispiaciuto?
A me andava bene, è sempre il diminutivo di Raffaele, tanto che volevo adottarlo anche in Italia, ma Giancarlo Bigazzi (produttore e paroliere, per anni hanno collaborato) si è rifiutato, e in quel periodo comandava lui, non avevo molta voce in capitolo.
“Comandava lui”, era un bene?
Sì, perché ero molto giovane e inesperto, e ha evitato alcune mie cavolate; no, perché poteva lasciarmi più spazio ed evitare un’inevitabile rottura tra di noi.
Lei è gli anni Ottanta.
Non lo so, sono più che altro una parte di quel periodo durante il quale ho tirato fuori alcune hit, e con Cosa resterà ho posto la domanda che ha chiuso un decennio.
Lo ha aperto con “Self control”.
Allora mi nascondevo, cercavo in tutti i modi di non apparire, per questo in tanti mi dicevano: “Conosciamo la canzone e non te”.
Come mai?
Vivevo un profondo imbarazzo: venivo dal punk, dalle cantine rock, dal concetto intrinseco di rivoluzione, un integralista in quanto a musica; per me cantare una canzone che si muoveva dentro i perimetri della dance era un tradimento imperdonabile.
Eppure…
Nei progetti iniziali di Self control dovevo restarne solo l’autore, poi l’editore e Bigazzi non riuscivano a trovare un interprete italiano, e mancavano solo tre mesi al lancio; così quasi mi obbligarono a interpretarla e mi arresi, convinto che altrimenti non sarei più riuscito a lavorare con la musica.
Obtorto collo.
Non volevo tornare a Londra per lavare i piatti, quindi ho ceduto, persuaso che non sarebbe accaduto nulla; al contrario è diventata una hit mondiale e il mio mondo si è ribaltato.
Il successo all’improvviso.
Come uno schiaffone in viso che ti stordisce, e in teoria dovevo esserne felice, anche perché iniziarono ad arrivarmi una quantità pazzesca di soldi, cifre mai viste prima; potevo permettermi cose mai immaginate.
Primo sfizio tolto?
Un viaggio a New York: scendo dall’aereo e trovo una ragazza che avevo conosciuto in Germania, e con lei anche una limousine e l’autista: sorseggiavo whisky mentre attraversavo Manhattan e dentro di me ripetevo: “Non è vero, sto sognando”.
Bel salto.
Solo l’anno prima suonavo nelle cantine! E ancora prima, ai tempi di Margherita di Savoia, per noi ragazzi l’America era così lontana da derubricarla alla sfera dell’irraggiungibile: era come la Luna.
Allora come passava le sue giornate?
Giocavo a pallone e suonavo.
Leggeva?
Solo gli autori in linea con quella fase della vita, solo i dannati e maledetti come Fante, Miller, Kerouac, Burroughs o Bukowski.
A scuola?
Se studiavo andavo bene, però mi impegnavo poco e le amicizie di quel periodo non aiutavano.
È stata dura andar via da casa?
Era più forte il desiderio di conoscere il mondo, senza troppe radici, per questo dopo Firenze sono finito a Londra.
Di che viveva?
I primi tempi grazie a qualche risparmio e a dormire ero ospite di amici; quando gli amici sono andati via, la sera aprivo di soppiatto la finestra di quello stesso appartamento ormai vuoto e senza inferriate, mi infilavo, piazzato sul divano, e all’alba me ne andavo; poi ho trovato una casa occupata e guadagnavo come lavapiatti.
E suonava.
Da punk, anzi post-punk, con il sogno di entrare in una band inglese.
Il suo look?
Tutto vestito di nero con il chiodo d’ordinanza (giacchetto in pelle) e la cresta, ogni tanto pure colorata di rosso, grazie alle bombolette spray.
In famiglia si è mostrato così?
No, quando tornavo in Puglia evitavo un look del genere, solo una volta mi hanno visto con i capelli biondi; ma loro erano abituati, tutti in paese parlavano di me, e alcuni cadevano in definizioni che passavano dal “pazzo” al “drogato” fino al “gay”.
Abituati, davvero?
Arresi, alzavano le spalle e dicevano “vabbé, questo figlio ci è venuto così”, mentre quando mi hanno visto per la prima volta in televisione, ospite di Raffaella Carrà, si sono fermati, della serie: “Forse non abbiamo capito qualcosa”.
Sempre per “Self control”.
Hit internazionale: è stata prima negli Stati Uniti, terza in Inghilterra.
Il successo, dicevamo.
(Ogni volta affonda i suoi pensieri nel sommerso). Una botta enorme, proprio non ero preparato e, come dicevo prima, lo vivevo male perché pensavo di aver tradito le mie idee.
E il rapporto con i fan?
Stessa storia: negli anni Ottanta non potevo uscire di casa senza venir rincorso; ogni volta la mia timidezza veniva messa alla prova, e non reggevo lo stress.
Dopo quanto tempo si è sentito “preparato”?
Ci ho messo almeno dieci anni.
Scinde Raf da Raffaele?
Non lo so, non ci ho mai pensato; credo di essere sempre me stesso.
Lei a un talent.
Mi è bastato Sanremo.
Cioè?
Le gare canore non le sopporto, l’agonismo lo concepisco più se devo giocare a pallone, o comunque qualcosa legato allo sport, non alla musica.
L’ultimo suo Sanremo è stato complicato.
Stavo proprio male, e non meritavo l’eliminazione; comunque avevo la broncopolmonite e la mononucleosi.
Bella doppietta.
Non stavo in piedi, in quei giorni mi hanno sparato di tutto a partire da bombe di cortisone, ma ero troppo convinto della canzone, tanto che all’inizio mi davano tra i favoriti.
Un muro di emozioni.
Se gioco in casa, se sono su un terreno amico e davanti al mio pubblico, non ho problemi, mi lascio trasportare; la prendo male, invece, quando sono in televisione o in situazioni dove so che l’occhio critico delle persone è acceso: lì l’emozione mi mette in difficoltà.
Quali sono le accuse dei suoi detrattori?
Negli anni ho sentito di tutto, e resto un meridionale un po’ permaloso, non riesco ad archiviare certe situazioni, anche se rispetto a un tempo mi schermo meglio.
Però?
Anche qui: è indole; non potrei mai andare in un salotto televisivo a parlare di politica o discutere di sociale perché potrei mettere le mani addosso a qualcuno.
Meglio di no.
Non me lo posso permettere, sbroccherei completamente: fino a un certo punto so mantenere il mio self control, poi quando parto…
Si chiude la vena.
Mia moglie lo sa e anche i miei amici: non capisco più niente.
Ha fatto a botte…
È capitato, ma ci vuole tanto, non sono immediato.
In questo è rimasto punk.
Nell’animo, sì.
“Infinito” è una canzone difficile da cantare.
Davvero? È peggio In tutti i miei giorni: quando la metto in scaletta mi sale l’ansia dai giorni precedenti, e con il fiato la preparo da molto prima.
Che domande si pone?
Ultimamente mi chiedo cosa farò da grande, perché inizio a sentirmi adulto.
Domanda inedita, quindi.
Sessant’anni sono passati in un lampo, e in questo tempo un po’ per fortuna, un po’ per la musica, e soprattutto grazie a mia moglie, non mi sono posto troppe questioni: non ho programmato il futuro. Non ho pianificato.
E cosa ha pensato?
Mi pongo domande ma non ho ancora risposte.
Le fa impressione?
Devo accettare un punto: che è giunto il momento di diventare grande.
Per i 50 non è andata così…
A quel tempo me ne sentivo 30.
Trent’anni con sua moglie.
Rappresenta la mia più grande scoperta, non immaginavo di poter riuscire a costruire un rapporto così solido e duraturo, mentre i miei legami precedenti sono stati tutti complicati, contorti, litigiosi, tormentati. (Ci pensa). Sono molto pop nella musica, sono molto meno pop per quel che riguarda la vita privata.
Ogni tanto balbetta.
Capita quando il cervello vuole trovare la parola più adatta, e non mi viene. Così mi inceppo.
Sinossi di Raf.
Su me stesso faccio fatica. (Alza lo sguardo ed è preoccupato). Devo proprio?
No.
Ah, meno male. Lei cosa risponderebbe?
(Canta Raf ne “L’infinito”: “L’infinito sai cos’è?… L’irraggiungibile fine o meta. Che rincorrerai per tutta la tua vita”).