La Lettura, 22 settembre 2019
Il colore secondo Piero Dorazio
«Dovevamo dipingere i muri nelle trattorie per mangiare tranquilli 15 giorni di seguito». Squattrinati, forse. Galvanizzati, di certo. Perché – anche a costo di fare la fame – stavano «portando l’arte italiana sul piano dell’attuale linguaggio europeo», tirando bordate «contro ogni sciocca e prevenuta ambizione nazionalistica e contro la provincia pettegola inutile qual è la cultura italiana odierna». Nel marzo 1947 otto artisti firmano il manifesto «Forma 1». Carla Accardi, Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Mino Guerrini, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo e Giulio Turcato proclamano «il valore estetico della forma pura quale fine dell’opera d’arte», convinti che il colore in sé possa generare emozioni e che, ormai, le pretese psicologiche siano affare superato.
La lezione di Kandinskij e Mondrian ha da tempo scardinato l’essenza figurativa dell’arte quando, a Roma, il gruppo entra a gamba tesa nel dibattito che contrappone astrattismo e realismo, proponendo una mediazione: la creatività può anche non essere del tutto astratta, ma vivere di intuizioni concrete trasportate sulla tela attraverso l’uso puro dei cromatismi e delle forme. Le linee sono specchio di movimenti reali, si disse delle opere di Piero Dorazio. Lui, che era stato un frequentatore dello studio di Renato Guttuso, con i colleghi sgancia una bomba (intellettuale) destinata a deflagrare a sinistra. Nel manifesto si definiscono «formalisti e marxisti, convinti che i termini marxismo e formalismo non siano inconciliabili». Guttuso, secondo cui il dovere del pittore è testimoniare la condizione dell’uomo attraverso il realismo, prende le distanze. Il clima culturale è incandescente. Per il segretario generale del Partito comunista, Palmiro Togliatti, certe cose sono «scarabocchi». Ma il grande critico Giulio Carlo Argan alla fine per i «ragazzi» spezza una lancia: «Capirono prima di altri che la rivoluzione nell’arte è più utile ai fini della rivoluzione rispetto a un’arte per la rivoluzione».
«Forma» si scioglie nel 1951, i componenti prendono strade diverse. Piero Dorazio (1927-2005) prosegue la sperimentazione: «Io – scrive nel 1962 – sogno “un metodo” di “usare il colore” in cui la tecnica e la poesia possano intrecciarsi». Le sue tele si popolano di elementi solo apparentemente semplici, tracce lineari, colori che puntano all’essenza della vita. Dipinge, teorizza, polemizza (sul «Corriere della Sera» è una firma): l’impegno a tutto tondo ne fa una figura chiave del secondo Novecento italiano. A lui è dedicata la mostra Piero Dorazio. Forma e Colore che inaugura il 27 settembre alle Gallerie d’Italia-Piazza Scala, sede museale di Intesa Sanpaolo a Milano. Nella Sala delle Colonne 14 opere appartenenti all’istituto bancario, più una proveniente dalla collezione Prada. L’esposizione sarà affiancata da un convegno organizzato da Università Cattolica – dove è nato il Centro di ricerca sull’arte astratta in Italia (Crait) – e Archivio Dorazio, costituito nel 2014 a Milano per volere di tutti gli eredi. Appuntamenti importanti, anche perché segnano la discontinuità rispetto a un periodo di spinose vicende legate all’eredità, ora superate. «Queste diverse iniziative consentono, per la prima volta dalla morte del maestro, di avviare un nuovo approfondimento della sua figura», spiega Francesco Tedeschi, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Università Cattolica, al lavoro sul catalogo generale del pittore e curatore della mostra. «Le collezioni Intesa Sanpaolo – prosegue – conservano un nucleo di oltre 20 opere di Dorazio in rappresentanza delle varie fasi della sua produzione: proporremo una selezione che pone l’accento su alcuni momenti nodali». Plasticità (1949) testimonia, ad esempio, l’acquisizione del linguaggio dell’astrazione. Crack Bleu e Crack Verde rispecchiano le urgenze di fine anni Cinquanta, in cui «le superfici diventano un campo continuo, all’interno delle quali riverberano la forza del colore, lo spazio e la forma della luce». Ne rimane affascinato il poeta Giuseppe Ungaretti che, nel 1966, annota: «In quei suoi tessuti o meglio membrane, di natura uniforme, quasi monocroma e pure intrecciata di fili diversi di colore, di raggi di colore, s’aprono, dentro i fitti favi gli alveoli custodi di pupille pregne di luce, armati di pungiglioni di luce». È l’anno di Allaccio A (la tela in prestito dalla collezione Prada). L’ottimismo utopico degli anni Sessanta segna i vivaci Serpente (1968) e Chocolate Paradise (1970), mentre più recente è Orò (1989).
Fedele, sempre. L’autore non rinnega mai la propria ricerca e, dipingendo, narra anche il passaggio ideale fra ieri e oggi: «Doric IV, del 1971, è fra le tele che più amo – conclude il curatore —. Tra bianco e colore sembra emergere una colonna in diagonale, la composizione può così suggerire il rapporto fra passato e presente. Ma questa è una creazione astratta: la colonna non c’è». La suggestione, però, sì. Ed è la scintilla ambita, la missione che Dorazio nelle sue note cristallizza così: «L’arte della pittura non è destinata alla fabbricazione più o meno ingegnosa di immagini, ma alla ricerca di quegli elementi chiave della percezione visiva che generano il modo di vedere e di intendere le immagini».