La Lettura, 22 settembre 2019
Intervista a Jackie Chan
«Sono il figlio del cuoco del consolato francese a Hong Kong. Non che fossimo particolarmente privilegiati: avevamo un’abitazione decente e tutti gli stranieri con cui venivamo in contatto erano gentili, quello sì. Non i bambini. Non perdevano occasione di ricordarmi la mia estrazione. Ero già “tellurico” a quattro o cinque anni e mio padre, che aveva studiato arti marziali, mi impartì i primi rudimenti in modo che potessi canalizzare quell’energia. Mi buttarono comunque fuori da scuola dopo la prima elementare. I miei accettarono un lavoro in Australia e mi lasciarono a Hong Kong, iscrivendomi a un collegio: insegnavano kung fu. Ci sono rimasto 10 anni. Sono nato come Chan Kong-Sang, in Asia sono famoso come Cheng Lóng (“Diventa il Drago”). Voi mi conoscete come Jackie Chan».
Così parla Jackie Chan, duecento film all’attivo, il quinto attore più pagato al mondo, l’unico in grado di sfondare al box office sia asiatico sia americano. È particolarmente legato all’Italia, grazie al Far East Film Festival di Udine che lo ha voluto con un suo film nel 2015. Ha pubblicato la sua autobiografia in mandarino che è stata tradotta in inglese: Never Grow Up. È ora sul set del suo nuovo film, Wode riji, «Il mio diario». Nel 1989 Chan aveva partecipato a un concerto pro-Tienanmen. Oggi, passati trent’anni, è un membro della Conferenza politica consultiva a Pechino e usa toni più cauti, invitando i manifestanti di Hong Kong alla calma: «Sono nato a Hong Kong, la Cina è la mia patria. Hong Kong e Cina assieme stanno progredendo benissimo, ne sono orgoglioso. Stabilità e pace sono come l’aria fresca: non immagini quanto siano preziose fino a quando non le perdi».
Che cosa pensa delle proteste di questi mesi a Hong Kong?
«Ormai sono diversi anni che manco da Hong Kong. Mi sono trasferito a Pechino perché per la produzione cinematografica i giochi si fanno senza dubbio qui. Qui ho i miei colleghi e devo dire che mi piace molto».
Andiamo allora alla Hong Kong della sua infanzia. È il 1964: lei ha dieci anni e vive in collegio. Programma?
«Semplice: sveglia alle 5, kung fu fino alle 23, due pasti. I miei mi inviavano audiocassette con le loro voci registrate. Piangevo da star male. A un certo punto ho smesso di ascoltare i nastri. C’era ovviamente nonnismo, ma il maestro aveva una tecnica infallibile: quando ci beccava ad azzuffarci, ci faceva continuare. Dovevamo prenderci a sberle l’un l’altro fino a che non svenivamo. Molto kung fu...».
Niente amore?
«Appena uscito da scuola. Lei aveva 15 anni, lo tenemmo segreto. Dopo due anni, suo padre ci beccò un giorno per strada e le vietò di frequentarmi, dicendomi che ero solo un saltimbanco. Lei è stata male, ma il rispetto dei genitori è fondamentale nella mentalità cinese. Io sono stato peggio, mi sono sentito insultato e ho rotto. Anni dopo lei aprì una boutique che stentava a decollare, mandai alcuni assistenti nel negozio a comprare tutto. Lei fiutò il trucco e non volle più vendermi nulla. Non l’ho mai più rivista».
E il cinema come arrivò?
«Mio compagno di scuola era Sammo Hung, che si ruppe una gamba e durante la degenza guadagnò peso perché il nonno gli portava certe tagliatelle bisunte... Non riuscì più a tornare magro. Venne espulso dalla scuola ma entrò nel giro dei film di arti marziali e ci trascinò con lui».
Lei come iniziò?
«Facendo il morto. I registi erano incantati di quanto a lungo potessi trattenere il respiro dopo che mi uccidevano sul set. Poi sono passato a fare lo stuntman, il cascatore».
La svolta?
«Un giorno il direttore degli stunt su un film si rifiutò di fare una coreografia perché era a rischio di morte per il suo team. Allora mi feci avanti».
E come andò?
«Ho fatto lo stunt al primo ciak. Sono caduto a terra da una certa altezza, mi sono rialzato, la troupe mi ha guardato incredula... e io dissi: “Posso farla meglio, ne facciamo un’altra?”. L’industria cinematografica hongkonghese negli anni Settanta era vorticosa, mi offrirono presto una parte da protagonista».
I primi film furono dei flop, però.
«Sì, tanto più che il budget era misero e quindi io sperperavo la mia paga per offrire la cena ai tecnici. All’inizio sbagliai un numero spropositato di film. Scappai dai miei in Australia. Mi riempii di lavoro in un ristorante: per stordirmi, altrimenti la sera mi sarei steso a letto e nel buio avrei pensato ai sogni che avevo».
Ma si rialzò.
«Ricevetti una telefonata. Da Hong Kong: per Hand of Death, il regista era John Woo. Poi mi richiamarono, ormai avevo vent’anni, per girare New Fist of Fury. Volevano che fossi il nuovo Bruce Lee. Non era la mia direzione, al mix pure i tecnici mi prendevano in giro perché non ero all’altezza del mito. Non sapevano che ero nascosto in sala a vedere il film con loro, scoppiai a piangere».
Poi arrivò quello che lei chiama il suo «terzo padre».
«Leonard Ho, il produttore della Golden Harvest. Mi chiese: e se potessi decidere tu, che film faresti? Gli spiegai che Bruce Lee calcia sempre alto, io tengo le gambe basse. Lui urla per spaventare, io perché provo dolore. Volevo portare sullo schermo persone, non supereroi: ci sono cose che non posso fare. La gente avrebbe empatizzato. Girammo The Young Master, fu un successo clamoroso».
Poi il crollo.
«Bevevo, giocavo d’azzardo: guadagnavo tanto ma spendevo in cose assurde».
Come ne uscì?
«Mi ridimensionò la prima esperienza a Hollywood, con Robert Louse. Era il 1980, lì non ero nessuno, parlavo male inglese. In cinese diciamo: “C’è sempre una montagna più alta di un’altra”. Risale a quel periodo la mia mania di vestirmi con abiti cinesi tradizionali: ho sempre cercato di differenziarmi. Mettevo vestiti cinesi da donna perché avevano colori più sgargianti».
Problemi con i fan?
«Una giapponese si spacciava per mia moglie con la security. Un’altra si presentava a tutte le prime, si metteva in fila per l’autografo e quando eravamo faccia a faccia, mi tirava un ceffone pazzesco. Ci fregava sempre perché si travestiva. Poi ha spiegato che voleva essere ricordata».
Si faceva più male sul set, però.
«Non ho una parte del corpo integra: la mia caviglia si sloga mentre cammino, la gamba si sublussa ogni due per tre mentre sono sotto la doccia. Nel 1985 giravo Armour of God nelle campagne di Belgrado: volai di testa da un albero, ho sbattuto contro una radice, mi si ruppe il cranio. Adesso ho una placca di plastica in testa e non sento niente dall’orecchio destro. Però faccio io tutti i miei stunt».
Colpisce quanto lei abbia saputo preservare un’attitudine da bambino verso il mondo, eppure non si vede spesso la relazione padre-figlio nei suoi film.
«È esattamente su questo che verte il film che sto girando, Wode riji. A proposito di padri: quando fuggirono dalla Cina continentale a Hong Kong, negli anni Cinquanta, i miei non si conoscevano ancora. Avevano però ciascuno già dei figli, che lasciarono in Cina. L’ho scoperto tardi, non ne sapevo niente. Ne ho fatto un documentario, Traces of a Dragon, 2003. Sui figli invece... Durante l’infanzia di mio figlio J.C. sono sempre stato assente, ero via per girare o cantare. Una volta sono andato finalmente a prenderlo a scuola, l’ho aspettato a lungo e inutilmente fuori dal cancello delle elementari. Quando ho chiamato mia moglie, ho scoperto che faceva già le medie».
Dopo il suo Oscar alla carriera nel 2017 lei ha proposto che venisse creato un Oscar «al miglior stuntman».
«Mi sembra un atto di rispetto nei confronti di una categoria fondamentale. Nel 1992 Sylvester Stallone mi invitò sul set di Demolition Man. Scoprii che gli stuntman di Hollywood studiavano i miei film in videocassetta. La proposta è stata avanzata ufficialmente nel 2018 ma non è ancora stata accettata dall’Academy».
«Mulan» e «Kung Fu Panda»: storie cinesi ma portate al successo dagli americani. A Pechino sono mancati l’originalità e il tempismo per concepirli: nel suo libro ha speso parole molto dure su questo.
«Negli ultimi anni ho cambiato idea, mi sono reso conto che i film sono sempre più una lingua che trascende i confini nazionali: Hollywood può benissimo impossessarsi di una storia cinese e renderla più bella. È un’ottima cosa, ed è anche una sfida stimolante per i cineasti cinesi, perché riscoprano il nostro retaggio».
Colpisce questa sua attenzione verso il patrimonio culturale cinese.
«Ho girato anche una serie di film sui ladri d’arte. L’ultimo è Chinese Zodiac, del 2012».
Sì, ma lei ha comprato anche intere case cinesi di legno dell’Ottocento...
«Quattro. Le ho fatte restaurare, poi non sapevo dove metterle. Pagavo talmente tanto d’affitto per il garage dove le avevo stipate che ho preferito donarle all’Università di Singapore».
Sembra che lei abbia provato di tutto. Il più grande rimpianto?
«Non aver imparato subito a scrivere. La scrittura cinese è molto più complicata dell’alfabeto: abbiamo più di 60 mila caratteri. All’inizio, quando firmavo autografi, sudavo freddo. Il problema era scrivere correttamente il nome dei fan, quindi scappavo. Così ho creato una fondazione per far studiare i bimbi svantaggiati».
Perché non fa un film sulla sua vita? Sarebbe una storia su Hong Kong negli ultimi 40 anni.
«Sapete che ci penso? Lo dirò la prossima volta. Devi adattarti ai tempi che cambiano e anche ai corpi che cambiano. Ora lavoro per essere un attore a tutto tondo che sa anche muoversi, e non solo un artista marziale che sa le battute. Spero di essere lucido, e sapere quando smettere prima di essere ridicolo. Magari faccio lo zaino e, semplicemente, parto».