La Lettura, 22 settembre 2019
I 70 anni della Repubblica popolare cinese
Le manifestazioni di piazza contro il governo filo-cinese di Hong Kong di queste settimane hanno come bersaglio ultimo il governo della Cina continentale, sotto la cui sovranità Hong Kong è tornata nel 1997. Le proteste, iniziate per ottenere l’abrogazione di una legge sull’estradizione (obiettivo raggiunto), sono presto sfociate nella richiesta di elezioni a suffragio universale, allargando così l’orizzonte della contestazione e riproponendo, in termini potenzialmente più dirompenti, le condizioni di rischio che si vennero a creare nel 1989 a piazza Tienanmen, con il tragico epilogo che conosciamo. La tempistica è delicata, con l’imminenza del 70° anniversario della nascita della Repubblica Popolare, 1° ottobre 1949.
In base al principio «un Paese, due sistemi», Hong Kong ha un sistema politico diverso dalla Cina continentale, con un elevato grado di autonomia, tranne che nelle relazioni estere e nella difesa, e un sistema elettorale complesso, che limita la partecipazione al voto. Il processo di integrazione dei principi democratici instaurati durante il periodo coloniale con i valori e le regole di organizzazione sociale della Cina continentale non è semplice, essendo la volontà popolare rimasta esclusa dalle trattative che hanno portato alla cessione della colonia alla madrepatria. Da qui sorge la richiesta di democratizzazione e di elezioni libere, concessione che Pechino non potrà accordare, per non creare un pericoloso precedente che minerebbe alle fondamenta il sistema di governance della Cina continentale. Per rafforzare la loro richiesta, l’8 settembre migliaia di manifestanti sono sfilati sotto il consolato americano sventolando bandiere a stelle e strisce e invocando l’intervento di Trump, che certo non può dirsi paladino dei diritti umani, ma che in questo frangente viene visto come un possibile alleato, essendo il più potente antagonista della Cina e di Xi Jinping. E la settimana dopo, una delegazione guidata da Joshua Wong e Denise Ho, due leader del movimento, si è recata a Washington per chiedere al Congresso la promulgazione di una legge che consenta agli Usa di intervenire in difesa dei diritti civili e della democrazia a Hong Kong. Un atto che sarebbe interpretato da Pechino come un’inaccettabile interferenza negli affari interni. Perché tirare in ballo proprio Trump e il Congresso col rischio, tutt’altro che remoto, d’innescare un’escalation che porterebbe a scenari imprevedibili? Perché Trump è il più influente e caparbio oppositore dell’espansione egemonica cinese nel mondo.
Trump ha individuato nella Cina il nemico numero uno degli Usa. E nel corso di questi anni il presidente è stato coerente nel mettere in pratica quanto promesso, contrastando l’avanzata di quella che egli considera la potenza in grado di mettere in discussione la supremazia americana e, in ultima istanza, la superiorità del mondo occidentale. L’assertività di Trump dimostra che egli, avendo compreso appieno le implicazioni dell’avanzata cinese nel mondo, è deciso a combatterla con ogni mezzo, convenzionale o meno: hard diplomacy allo stato puro. Non che il suo predecessore non avesse colto il pericolo, ma i metodi tradizionali a cui Obama era ricorso si erano rivelati insufficienti. Da ciò deriva la scelta di Trump di scardinare l’equilibrio mondiale per riscrivere le regole del gioco a proprio vantaggio e ridisegnare ex novo l’assetto geopolitico del pianeta, impostando su basi diverse le relazioni tra le nazioni.
Ed è proprio a questo che mirano i giovani hongkonghesi in rivolta: destabilizzare un sistema che temono, perché troppo autoritario, oppressivo e irrispettoso delle libertà civili fondamentali. A prescindere dalla preparazione dei suoi leader e dal sostegno più o meno occulto che gli giunge dall’estero, il movimento non potrà mai avere una forza d’urto paragonabile a quella di un Trump, mentre i rischi in cui incorre nel superare la linea rossa sono tutti a carico dei dimostranti. La posta in gioco è alta. All’orizzonte si profila un nuovo ordine geopolitico mondiale a trazione asiatica che avrebbe nella Cina o in un’alleanza multipolare a guida cinese il suo sistema nervoso centrale. La Cina lavora da tempo per attuare una strategia espansiva basata sulla creazione di un network infrastrutturale imponente (strade, ferrovie, porti, aeroporti, gasdotti, oleodotti, vie digitali eccetera) che coinvolga i Paesi asiatici, europei, africani e latino-americani, con Pechino come perno. Sono funzionali al progetto le acquisizioni industriali ed energetiche nel mondo, la creazione di nuove strutture finanziarie ed economiche, i nuovi trattati commerciali, il progressivo rafforzamento militare... Per realizzare tale programma sono stati messi in campo capitali ingenti, come mai era accaduto nella storia dell’umanità.
La sfida non è solo commerciale, come la guerra dei dazi farebbe intendere, è anche, e forse soprattutto, tecnologica e strategica. In gioco c’è la sicurezza delle trasmissioni e degli apparati militari, il controllo delle telecomunicazioni globali e delle vie commerciali, e tanto altro. La rete superveloce di connessione mobile 5G, di cui Huawei e Zte sono leader mondiali, è essenziale non solo per vincere la competizione commerciale, ma anche per garantire la sicurezza militare delle nazioni che l’adottano e sono per questo da tempo nel mirino di Trump. Il confronto tra Usa e Cina è serrato. Non a caso i settori sui quali Pechino investe maggiormente sono le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le macchine a controllo numerico e la robotica, gli equipaggiamenti aeronautici e aereospaziali, l’ingegneria marittima e la fabbricazione di navi ad altissima tecnologia, l’equipaggiamento ferroviario avanzato, i veicoli a risparmio energetico, il miglioramento degli impianti industriali, i nuovi materiali (nanotecnologie), le biotecnologie e i dispositivi medici ad alte prestazioni, le macchine e le attrezzature agricole. La Cina vuole raggiungere la supremazia in questi settori in tempi rapidi, per potenziare il controllo sociale all’interno del Paese e attestarsi in posizione dominante all’esterno. Sull’intelligenza artificiale e sugli armamenti gli investimenti sono massicci, secondi solo a quelli degli Stati Uniti. Per accelerare il processo di modernizzazione tecnologica, i centri di ricerca e le università cinesi stanno reclutando in gran numero studiosi e scienziati da tutto il mondo.
Il gap con gli Stati Uniti si va così gradualmente riducendo in diversi settori, in alcuni la Cina è già leader.
La contesa è sì culturale, anche se di soft nella guerra per la supremazia c’è ben poco, ma è la competizione tecnologica a fini militari e commerciali a prevalere e a minare la stabilità del mondo. Non è solo uno scontro tra modelli di vita e di governance diversi, tra un Occidente «libero e democratico» in declino che non vuole cedere il passo e una Cina «autocratica e dispotica» in ascesa. In questo quadro la Russia cerca di trovare il suo spazio, mentre l’Europa in affanno stenta a imporsi.
Emblematico è il caso dell’Italia, frastornata com’è dai continui cambiamenti di rotta, stretta tra la morsa americana, che le impone di esercitare il golden power per il 5G come primo atto del nuovo governo e la tentazione cinese, che la spinge a firmare, unico Paese del G7, il Memorandum sulla Via della seta, nonostante le pressioni contrarie di Trump e dell‘Unione Europea. Assistiamo a equilibrismi difficili da gestire, che richiedono una consapevolezza della complessità del quadro geopolitico, competenze solide, linee politiche meditate, condivise e soprattutto attuabili. Gli stessi requisiti sarebbero necessari ai manifestanti di Hong Kong per evitare di restare stritolati in un gioco più grande di loro.