Corriere della Sera, 22 settembre 2019
Mika, il sesso e l’omosessualità. Intervista
NEW YORK «Sono estremamente esigente con me stesso, uno str...». Lo hai detto di recente in un’intervista radiofonica. E tu, che pur essendo nato in Libano e cresciuto tra Parigi e Londra in una famiglia con radici mediorientali e americane, parli un magnifico italiano, scegli le parole con cura. Cosa intendi con questa immagine dura? Non te l’aspetti dalla pop star gentile entrata nelle case degli italiani anche grazie a tanta televisione.
Mika risponde di getto. «Str... nel senso che in quello che faccio mi sento sempre obbligato a cercare la perfezione, fino a farmi male. Anche quando creo una canzone dai ritmi accattivanti, con testi apparentemente giocosi: dietro c’è un lavoro duro, ogni volta metto in gioco tutto me stesso. E mi infliggo la sofferenza di questa ricerca quasi maniacale della perfezione. Che, poi, è la chiave del mio successo: creatività ma anche credibilità. Ho fan in tutto il mondo, ma non sono una rockstar commerciale. Mi considero un artista di nicchia. Ampia, planetaria, ma pur sempre nicchia. Per conservarla la buona musica è essenziale ma non basta: servono credibilità e trasparenza».
Una voglia di trasparenza che spinge Mika, alias Michael Holbrook (il suo vero nome all’anagrafe e il titolo del nuovo album che uscirà il 4 ottobre) a raccontarsi con una franchezza disarmante davanti a un’insalata di cereali esotici e a un giornalista che non ha mai visto prima.
Col nuovo disco, il primo dopo quattro anni, e questo tour di concerti americani che lo anticipa, getti alle spalle l’esperienza televisiva che ti ha dato tanta popolarità. Si diceva che sarebbe stata la tua nuova fonte d’ispirazione e invece...
«E invece era una gabbia. Mi è piaciuto fare televisione, mi ha dato molto. Ho potuto sviluppare un progetto occupandomi di tutto: testi, coreografie e costumi con mia sorella Jasmine. Ho fatto perfino il falegname. Un’esperienza che mi ha avvicinato al mio sogno nel cassetto: dirigere un teatro tutto mio. Ma la tv è anche una gabbia: regole, complessità, vincoli organizzativi che uccidono la creatività. Per questo ho deciso di bruciare la mia identità televisiva. E per cambiare, per ritrovare me stesso, non potevo che tornare indietro: riscoprire la mia famiglia, i profumi, le emozioni e anche gli incubi della mia adolescenza».
La sensualità è sempre stata una cifra della tua musica, ma stavolta lo è molto di più, anche con la rivendicazione della tua identità gay.
«È la mia reazione alla castrazione della musica pop degli ultimi 15 anni: traboccava sesso negli anni Settanta, Ottanta e Novanta. Poi è improvvisamente sparito dalla creazione artistica. È rimasto solo nei suoi aspetti commerciali, nei video. Ma qui torniamo anche alla ricerca di credibilità: la molla del successo di cui ti dicevo prima. Con Il mio nome è Michael Holbrook sono andato a cercare ispirazione — in un momento di crisi di creatività — nei miei anni giovanili. Tornando a immergermi nelle gioie ma anche negli incubi di un’infanzia comunque difficile. Lo scontro coi professori, l’espulsione da una scuola di Londra, il bullismo. La spinta al successo, la ricerca della perfezione è cominciata qui».
In che modo?
«Ricordo ancora il momento chiave. Avevo 13 anni. Ero in bagno, ormai consapevole della mia omosessualità. Era un gigante, un mostro chiuso nel mio armadio. Mi sono chiesto come avrei fatto a essere me stesso, a cercare quello che mi attrae nella vita, senza finire male. Mi sono guardato allo specchio e mi sono detto: o riesco a diventare uno di enorme successo o sono morto. E da quel giorno ho cominciato a combattere tenacemente per diventare un artista importante. Duro, perfino maniacale anche con me stesso, per conquistare un successo che per me significava libertà, salvezza. Così oggi posso parlarti di quel giorno in bagno e dei miei mostri nell’armadio senza vergogna».
E del bullismo.
«Un’altra molla. Quando ero vittima dei bulli resistevo grazie a un pensiero fisso: un giorno questi che adesso mi perseguitano verranno ad applaudirmi ai concerti. Beh, è successo».
Quanto è stata importante tua madre che ti ha ritirato dalle scuole e ti ha mandato a lavorare quando eri ancora un ragazzino?
«Un ruolo importante. Mi diceva che uno come me, se non riusciva a fare cose importanti, rischiava di finire in galera. Non so perché lo diceva. Certo mi stimolava, mi imponeva ogni giorno ore di prove di canto. A 14 anni ero già una voce della Royal Opera House di Londra. Guadagnavo, conquistavo rispetto e stima. E l’opera mi ha portato in un mondo affascinante di musica, voci, colori, costumi, scenografie».
Dal melodramma al pop sensuale e scatenato saltando da uno stile all’altro: ti hanno accostato a Prince, a George Michael, ti hanno definito un erede di Freddie Mercury.
«La mia identità l’affermo soprattutto con la voce e i testi delle canzoni: molto veri, spesso duri anche quando le musiche sono seducenti, ti fanno ballare. È vero, mi piace mescolare gli stili: nel nuovo album ripercorro quelli degli ultimi trent’anni del Novecento, da Tiny Love ad Ice Cream, giocosa, maliziosa e scatenata, alla rilassante Sanremo. Rilassante ma illustrata con un video tosto in bianco e nero, ispirato ai “ragazzi di vita” di Pasolini».
In che senso il sesso è sparito dal pop? Non dipenderà anche dal fatto che, nell’era digitale, anche il rapporto dei giovani col sesso, mediato dagli smartphone, è cambiato?
«Forse incide, anche se poi i sentimenti riesci a esprimerli pure via web. Credo che l’enorme carica sessuale della musica di trent’anni fa sia stata depotenziata per motivi commerciali, per costruire le megastar planetarie. Ha pesato anche l’Aids: prima il sesso era solo gioia, poi ha preso riflessi di sofferenza. Sì, io voglio tornare a Prince, a George Michael, a Hutchence».
Chi?
«Michael Hutchence. Australiano, un gigante del rock. Mi ha insegnato tanto. Non lo conosci? E come occuparsi di finanza e non sapere chi è George Soros».
Eccolo Mika: aperto, trasparente e puntiglioso. Con sé stesso e col giornalista a corto di cultura musicale.