Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2019
Italo Calvino amico e correttore
La prima cosa che mi ha colpito è stata la foto di copertina. Per quanto ne so, inedita. È la primavera del 1983, e a Parigi, al Beaubourg, è allestita una mostra su De Chirico. Il 9 marzo Calvino viene invitato a tenere una conferenza sul pittore italiano (che poi sarà pubblicata nel fascicolo di luglio-agosto di «FMR» col titolo Accanto a una mostra). La lettura del testo è accompagnata da una quarantina di diapositive. Lo scatto, in bianco e nero, lo ritrae in piedi mentre sta parlando, con gli occhi abbassati, puntati sui fogli che tiene stretti tra le mani. Gli occhiali sono disposti di lato, sulla scrivania, e la luce che proviene da una lampada sul tavolo illumina il suo corpo e il volto, lasciando nel buio più totale lo spazio circostante. Una foto affascinante, che ha la potenza di trasportarci in quella sala e quasi di farci sentire le sue parole.
Poi, sono passato a leggere la quarta. Essenziale, senza fronzoli o frasi a effetto, come deve essere una quarta di copertina, in cui l’autore spiega le ragioni che lo hanno spinto a pubblicare questo libro e perché ha deciso di intitolarlo così. «La lunga fedeltà che ho dato al titolo è il mio scavo appassionato nella sua opera, che non ha mai cessato di stimolarmi. Il titolo ha un’ascendenza nobile, perché l’ho mutato dal volume di Contini su Montale: un critico che Calvino ammirava e un poeta che conosceva a memoria». Cinquant’anni di fedeltà a uno dei maggiori scrittori del secondo Novecento. Anzi, a un «intellettuale-scrittore», come lo definisce Giovanni Falaschi. E la definizione è quella giusta. Perché per Calvino scrivere ha senso solo se si ha di fronte un problema da risolvere, perché – come dichiarò in un’intervista a Daniele Del Giudice nel gennaio del 1978 – «ogni volta che tento un libro devo giustificarlo con un progetto, un programma, di cui vedo subito le limitazioni». Un caso più unico che raro nella letteratura, e non soltanto italiana.
Il libro è suddiviso in due parti. La prima riunisce le lettere scritte da Calvino a Falaschi negli anni 1971-83. In tutto 17, di cui 10 pubblicate qui per la prima volta. La seconda raccoglie i saggi e le recensioni di Falaschi su Calvino: dal pionieristico ritratto uscito su «Belfagor» nel settembre del 1972, all’ultimo articolo, inedito, che prende spunto dalla relazione letta al convegno Cosimo, duecentocinquant’anni dopo, tenuto a Milano nel 2017. In apertura c’è un saggio-testimonianza che fa da filo conduttore all’intero volume e in cui Falaschi racconta la storia del loro lungo sodalizio.
Il primo incontro di «un provinciale tra il timido e il baldanzoso» con il giovane scrittore allora quarantenne, «alto e asciutto, vestito di calzoni bianchi e una camicia rosa con le maniche rimboccate», avvenne d’estate a metà degli anni Sessanta in via Biancamano, in Casa Einaudi. Lo studente Falaschi era andato a Torino a caccia di riviste e giornali per la preparazione della sua tesi di laurea sulla narrativa della Resistenza. Un lavoro di scavo faticosissimo che a quel tempo nessuno faceva, soprattutto nell’ambito della letteratura contemporanea, ma che interessò a Calvino, tanto che gli fornì utili informazioni riguardo ai suoi articoli pubblicati su «l’Unità» dell’immediato dopoguerra. Ma tutto terminò lì, fino al 1971, quando in dicembre si incontrarono di nuovo a Torino. Stavolta fu Calvino a riprendere i contatti. Gli era piaciuto molto un saggio – Calvino tra “realismo” e razionalismo – che Falaschi aveva scritto su di lui. E aveva voluto dirglielo in una lettera che gli spedì il 16 settembre: «Lei è il primo studioso della letteratura italiana del dopoguerra che fa quello che da tempo m’aspettavo che si cominciasse a fare: andarsi a documentare sulle fonti dove la letteratura nasce e prova le sue forze e svolge le sue battaglie, prima di arrivare sui libri: cioè giornali e riviste».
Nel ricordare quella freddissima ma indimenticabile giornata torinese, Falaschi ci fa un bel regalo raccontando un curioso episodio. La sera, durante una passeggiata, Calvino cominciò a parlargli del libro a cui stava lavorando. A un certo punto, improvvisamente, si fermò e come se nulla fosse «si mise a tracciare col dito su un muro delle linee immaginarie per rappresentare le varie direzioni di lettura». E stette lì, per diversi minuti, faccia contro il muro, a spiegargli nel dettaglio l’architettura del progetto cui da lungo tempo aveva pensato. Il libro era Le città invisibili. Quando l’anno seguente uscì, gliene inviò una copia con una scherzosa dedica in forma toscana: «al Falaschi – perché mi sottoponga al suo microscopio – il Calvino».
È l’inizio di un’amicizia che non sarebbe venuta mai meno. E che il lettore potrà apprezzare leggendo le lettere di Calvino. Molte, come ho detto, inedite. Tra le quali spicca la lunga lettera del 15 luglio 1974, in cui lo scrittore passa al setaccio da impareggiabile editor qual era La resistenza armata nella narrativa italiana, il libro di Falaschi che due anni più tardi sarebbe stato pubblicato da Einaudi. Come dice lui stesso, prova «a metterci le mani». Calvino suggerisce, ammonisce, incoraggia, ma anche riscrive, corregge, lima, riduce il testo. Dedica una settimana delle sue vacanze a leggere e annotare un’opera che apprezza ma che non ha ancora raggiunto quel grado di leggibilità che ritiene assolutamente indispensabile perché diventi un libro.
Sono le pagine 69-79 di Una lunga fedeltà a Italo Calvino: una lezione di metodo che consiglio a tutti gli editors di questo mondo. E naturalmente anche a chi scrive. O ci vuole provare.