Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2019
L’intreccio tra sesso e gioielli
WIMBLEDONX
«Un baciamano può farti sentire molto molto lusingata, ma un bracciale di diamante e zaffiri dura per sempre»: la frase di Anita Loos dal suo celebre Gli uomini preferiscono le bionde (1925) sta forse alla base del motto coniato nel 1948 dalla copywriter della De Beers; motto tuttora di grande successo pubblicitario, inscalfibile quasi come la pietra che esalta. Anche il romanzo non scherza, quanto a resistenza: la più recente ripresa a me nota è filmica, in una lunga scena del Moulin Rouge! (2001) di Baz Luhrmann, accompagnata dalla canzone “Sparkling Diamonds”. Eternità delle pietre preziose e degli anelli... che non cambiano al nostro cambiare e sono ritenuti «pertanto una garanzia di identità nel tempo».
È la prima significazione degli anelli evocata da Wendy Doniger nel suo L’anello della verità e altri miti intorno al sesso e ai gioielli, in libreria fra pochi giorni per Adelphi nell’impeccabile traduzione di Svevo D’Onofrio. In effetti, quello della “verità” è il tema centrale e profondo dell’opera, sviluppato da miti che ruotano intorno a coppie di opposti come vero/falso, autentico/contraffatto, verità/menzogna, e così via. Il libro è davvero uno scrigno, anzi un forziere – diciamo per attenerci all’immaginario che lo sostanzia – di racconti e di valori analogici, dagli Assiri a Elvis Presley e ben oltre, fantasmagorici, rutilanti, ma anche macabri e sanguinanti come l’arto della donna-lupo smascherata appunto dall’anello a un dito della zampa e arsa come strega secondo un racconto alverniate dell’ 800.
Il potere di significazione degli anelli, sciorinato dall’autrice con la consueta competenza e dovizia grazie a un tesoro impensabile di testimonianze narrative, appare davvero inesauribile e, volendo, contraddittorio o forse meglio a 360 gradi, circolare come appunto l’anello (ring): questo, e in particolare il sigillo, è – si diceva – garanzia di identità e di fedeltà, ma pure mezzano di tradimenti e mercimoni, è simbolo spirituale oppure sessuale, metafora dei genitali maschili (designati in tibetano o in yiddish dalle rispettive parole per “gioiello”) e ovviamente dell’organo femminile, sorgente di potere erotico e di potere magico... il suo smarrimento è fonte di sventura (spesso di perdita della possibilità di essere riconosciuti) ma sorprendentemente il suo recupero fortunoso è, nell’opposta tipologia mitica, presagio di disgrazie irreparabili.
Prototipo in Occidente di questo diffuso tema è la famosa storia erodotea di Policrate tiranno di Samo. Questi era fortunatissimo, tuttavia per scongiurare l’invidia degli dèi accoglie il suggerimento di gettare via l’oggetto per lui di maggior valore concreto, ma soprattutto affettivo. Si imbarca così su una nave e lancia in mare aperto il suo sigillo di smeraldo incastonato nell’oro. Pochi giorni dopo, un pescatore cattura un pesce stupendo e ritiene di donarlo al sovrano; sventrato nelle reali cucine, il pesce restituisce l’anello di Policrate che aveva inghiottito. Con esatta intuizione, il tiranno capisce che il ritrovamento è premonizione di sventura: sappiamo dalla storia che finirà tradito, catturato e fatto crocifiggere (523 a.C.) da Orete, satrapo del re dei re Cambise. Fuor di metafora: non si sfugge al proprio destino, che ritorna implacabile anche se si prova a seppellirne il simbolo nel mare. Così i dogi di Venezia usavano gettare ogni anno il loro «anello d’oro nell’Adriatico come pegno di matrimonio» e di reciproca fedeltà: ahimè, secondo una leggenda che spiega l’usanza, l’unica volta in cui l’anello viene ritrovato – guarda caso in un pesce servito alla tavola ducale – l’evento preconizza la rovina della Serenissima.
Spesso il linguaggio adottato dalla Doniger in questo libro è opportunamente e piacevolmente intonato al soggetto, quindi brillante e per nulla accademico: così – rileva ad esempio la grande studiosa – la storia dell’anello e del pesce figura nella top-ten «delle storie più diffuse di tutti i tempi, in cima alle classifiche almeno dai tempi degli antichi greci». Non senza riferimenti a testi contemporanei ed eterogenei come i film di Doris Day o come Big Fish – Le storie di una vita incredibile (Tim Burton, 2003). Nella tipologia del mitologema opposta a quella di Policrate e certo più accattivante, il miracoloso ritrovamento è motivo di sollievo e di gioia per il/la proprietario/a. L’esempio più famoso, non solo in Asia, è quello di Shakuntala, protagonista di uno dei capolavori del teatro indiano classico, opera di Kalidasa (IV-V secolo d.C.): essa è condannata da una maledizione a non essere riconosciuta dal suo legittimo e innamorato sposo, il re, fino a che questi non abbia veduto l’anello che le aveva donato come pegno del suo amore, anello che inavvertitamente finisce nel fiume mentre la regina rientra a corte. Provvidenziale in questo caso lo sfortunato pesce che l’aveva inghiottito e che lo restituisce suo malgrado; la vicenda in realtà è meno lineare, perché questo accade mentre la regina, ripudiata, è lontana, rifugiata in un eremo remoto. Il riconoscimento di Shakuntala avviene quindi a distanza, non senza il dolore cocente dell’incolpevole marito.
Un altro valore evidente dell’anello fa dunque riferimento alla dimensione della memoria; la storia indiana finirà bene, come la drammaturgia di quel Paese prevede, addirittura con la nascita di Bharata, il sovrano eponimo dell’India. Per rimanere ai gioielli (circolari) indiani: uno dei principi di estremo interesse dell’iconografia e dell’estetica classica è che la natura deve essere integrata da ornamenti. Basti pensare che il termine per “ornamento” è in sanscrito alankara, ossia letteralmente «ciò che rende sufficiente, adeguato, completo». Statue (quasi) totalmente prive di gioielli, come per esempio quelle greche arcaiche sia femminili sia maschili, in India non sarebbero state concepibili, salvo naturalmente per l’immagine del Buddha storico, che in vita aveva scelto la condizione ascetica. Nella raffigurazione, anche letteraria, di volti e corpi femminili, ma pure maschili, importanza pari all’aspetto fisico hanno dunque vesti e accessori (cinture, sciarpe ecc.), anelli, bracciali, cavigliere, oltre a fiori nelle acconciature e alle orecchie. La ragione, anzi la finalità di questa integrazione è il “buon auspicio”. Si può aggiungere che pur nelle scene d’amore più eccitate, che non arretrano nemmeno di fronte alla rappresentazione (con esiti di alta poesia) del culmine del piacere, la donna non appare mai completamente nuda.
Bene come quella di Shakuntala finisce la storia del vescovo di Glasgow San Kentigern (VII secolo) che spiega il salmone con un anello in bocca campeggiante sullo stemma della città e sulle armi araldiche di diversi vescovi: anche qui l’anello era dono alla regina del re, che poi la sospetta di averlo tradito per via dello smarrimento. Ma con l’aiuto del santo da lei pregato, l’anello ricompare nel nobile pinnuto e comprova l’innocenza della donna. Come in molti altri analoghi casi, della leggenda esistono diverse varianti e riprese, con eventuale adattamento sociale dei protagonisti a contesti diversi.
E via quasi all’infinito, in un’affascinante girandola narrativa e semantica ingenua e cinica al tempo stesso, che non trascura i commediografi greci e romani, Sigfrido e Brunilde, Le nozze di figaro, Maupassant, Henry James o Somerset Maugham, ma nemmeno il profilo giuridico dei doni tra (ex)-fidanzati e divorziati. I motivi fondamentali cui si è accennato persistono oltre i millenni, i secoli, i paesi e i linguaggi espressivi, dai muti sigilli ai film musicali: pure se i gioielli spesso annullano la ragione, alla fine – anche di questo libro scintillante e spesso illuminante che si conclude così – «il mito trionfa; l’anello suona vero».