Il Sole 24 Ore, 22 settembre 2019
A tavola con Marco Bonometti
«La fabbrica è il cuore del mondo occidentale. Lo è in Europa. Lo è negli Stati Uniti. Negli Stati Uniti lo hanno capito e dimostrato due presidenti diversissimi come Barack Obama e come Donald Trump. Le loro formule erano differenti. Il primo voleva la rivoluzione verde. Il secondo crede nel carbon fossile. Ma le ragioni di fondo e gli obiettivi di lungo termine sono uguali. Perché la fabbrica dà identità alle persone. Garantisce stabilità sociale alle comunità. Concentra risorse sulla manifattura e ne aumenta il peso specifico rispetto alla finanza. La deindustrializzazione ha fatto male agli Stati Uniti. La rinascita dell’auto, là, è stata fondamentale. Oggi l’Europa deve persistere nella sua vocazione produttiva. E, sull’auto, deve ritrovare una unità progettuale definita fra Bruxelles e Strasburgo e condivisa con gli Stati membri dell’Unione europea. L’Europa non può rinunciare alla sua specializzazione nel diesel e deve trovare, con una politica industriale comunitaria, il suo posizionamento nella nuova geografia dell’auto, determinata dall’elettrico e dalla guida autonoma. Serve per esempio una batteria europea, perché oggi la redditività dell’elettrico è tutta in capo ai cinesi».
Marco Bonometti parlerebbe della “fabbrica” anche mentre dorme. La “fabbrica” per lui è la misura di tutte le cose. Alla “fabbrica” riconduce ogni fenomeno. Tanto più adesso che l’auto – una delle architravi del paesaggio industriale del Novecento – è al centro di radicali metamorfosi industriali e tecnologiche, sociali e geopolitiche.
Con la sua macchina, stiamo andando al ristorante “La voce del mare” di Castenedolo, a pochi chilometri da Rezzato, dove si trova lo stabilimento della OMR-Officine Meccaniche Rezzatesi, l’impresa sua e del fratello Franco specializzata in telai in alluminio e in componenti per i motori, le sospensioni e le trasmissioni: «Vedrai che staremo bene. È un posto semplice, ma per me è il miglior ristorante di pesce di Brescia». Con lui, appunto, ogni cosa richiama l’esperienza totalizzante del lavoro che caratterizza tutti gli imprenditori che, grazie ai mutamenti organizzativi e tecnici degli anni Ottanta e alla globalizzazione che dai primi anni Novanta ha garantito i mercati aperti, hanno preso delle piccole fabbriche e le hanno trasformate in medie aziende ultrainternazionalizzate: nel suo caso dai 25 dipendenti e dagli 800 milioni di lire di fatturato del 1988 ai 3.500 addetti e agli 800 milioni di euro di ricavi del 2018. «Questa Renegade me l’ha consigliata Sergio Marchionne, l’ho sentito l’ultima volta due giorni prima che entrasse in ospedale a Zurigo senza uscirne più, negli ultimi tempi mi prendeva in giro dicendomi che non riuscivo a smettere di fumare perché non avevo carattere», racconta citando per la prima volta un nome che, in questa serata, ricorrerà spesso.
Al ristorante Bonometti chiede al cameriere di portare il suo vino. Quest’hobby, condiviso da molti imprenditori italiani, ricorda quanto siano profonde le radici contadine in una provincia che, dagli anni Settanta, ha prima appaiato e poi superato le grandi città negli equilibri industriali del nostro Paese. «Le vigne, io e mio fratello Franco, le abbiamo direttamente in fabbrica», dice fra il divertito e il provocatorio. Anche se, poi, spiega: «Gli appezzamenti confinano con il nostro stabilimento».
La componentistica italiana è messa alla prova da fenomeni profondi e destrutturanti come la transizione verso le alimentazioni alternative («l’elettrico ha cambiato tutto, anche se probabilmente in futuro sarà ancora più determinante l’idrogeno») e verso la guida autonoma («sta cambiando l’idea dell’auto e del suo utilizzo e, quando cambia la testa degli uomini, cambia anche l’industria»).
L’idea di Bonometti della centralità della fabbrica – e della necessità anche della politica di mettersi al servizio di essa e non di cercare di metterla al suo servizio – nasce dalla sua storia di imprenditore del Nord – nello specifico di quella Brescia che, quando ha ceduto alla tentazione della finanza speculativa e ha abbandonato l’odore della lamiera, ha commesso peccati mortali – e dal suo inserimento nel circuito del capitalismo globale, con l’incontro con uno dei suoi simboli, quel Marchionne oggi dimenticato anche dai laudatori e dai beneficiati di un tempo e di cui Bonometti rivendica orgogliosamente l’amicizia: «Mi manca, ci manca, al cento per cento: per la sua forza e la sua irriverenza, per gli impulsi anche brutali e la voglia di modernizzazione nell’economia e nella società italiana. L’unico no che gli ho detto è stato quando voleva che gli vendessi la mia Ferrari Enzo numero uno colore nero».
Mentre viene portato in tavola del crudo di pesce (tonno, ricciola e spigola), Bonometti ricorda una scena precisa: «Eravamo al Salone di Ginevra del 2013. Sergio ha preso la cartina degli Stati Uniti. Ha disegnato con il dito una traiettoria fino all’Indiana e mi ha detto: “qui, la fabbrica la devi mettere qui”. E, così, è stato. A Indianapolis. Al Salone dell’auto di Detroit del 2015, abbiamo firmato l’accordo con l’allora governatore dell’Indiana Mike Pence, che oggi è il vicepresidente degli Stati Uniti». Vicino all’autodromo delle 500 miglia, la consociata americana di OMR ha acquisito ventimila metri quadrati di terreno per 1 dollaro e ha ricevuto un contributo pari al valore del capannone da 5mila metri quadrati. «L’industria è l’anima della società. L’ho visto bene nel Midwest contadino e industriale dell’Indiana. Marchionne mi chiese di andare a dare una occhiata per suo conto a Kokomo, una città di cinquantamila abitanti con un passato importante nell’acciaio e nell’auto. Là c’era un impianto della Chrysler ridotto male». Lo stabilimento di Kokomo, che risale al 1956, è stato rifondato con il World Class Manufacturing, la filosofia organizzativa messa a punto negli stabilimenti italiani della Fiat e importata da Marchionne negli Stati Uniti grazie agli specialisti provenienti da Pomigliano d’Arco, Cassino e Mirafiori. Oggi Kokomo dà lavoro a oltre 4mila dipendenti e produce impianti di trasmissione per Dodge e Jeep.
Indianapolis e Detroit. Rezzato e Brescia. Dove Bonometti ha trascorso, fino ai vent’anni, una vita placida e tranquilla, agitata e febbrile: il liceo scientifico dai frati francescani («l’abbiamo fatto rivivere con la Fondazione Padre Simpliciano Olgiati, che era il mio professore di italiano»), la passione politica per le idee di destra e lo sport (prima il nuoto, con i cento metri in stile libero in meno di un minuto, e poi la pallanuoto, «adesso con la AN Brescia, la Associazione Nuotatori Brescia, lavoriamo contro il bullismo portando i ragazzi a fare uno sport duro ma che insegna l’onore e le regole»). Una traiettoria interrotta dalla morte del padre Carlo, avvenuta quando Marco ha 23 anni. I camerieri portano a entrambi calamari fritti e verdure saltate. «L’azienda era stata fondata dai parenti di mia madre, Silvana Tirini, ma era guidata da mio padre. Per fortuna avevo già dato gli esami del terzo anno di ingegneria. E, così, sono riuscito a laurearmi. Il primo anno mio zio Antonio, un ex generale di corpo d’armata della Nato, mi accompagnava da clienti e fornitori. Non è stato semplice».
Brescia con il rumore delle fabbriche e i silenzi del potere. Le proiezioni nazionali e internazionali e il perimetro della comunità, con i suoi aspetti più popolari: «Durante la crisi del Brescia Calcio, una domenica incontro sul sagrato della chiesa di San Gaetano il professor Bazoli, che con molta cortesia e stile fa cadere lì un “perché non interviene lei?”. Poi una sera mi telefona Victor Massiah, l’amministratore delegato di Ubi Banca. Abbiamo rimediato a un buco da 40 milioni con un prestito partecipativo».
Rezzato come snodo da cui misurarsi con i grandi cambiamenti dell’auto. La OMR fattura 680 milioni di euro (800 milioni con le partecipate non consolidate). L’Ebitda è del 10 per cento. Ha 16 stabilimenti (sette all’estero). Nel 2008 il fatturato era per il 70% ottenuto in Italia e per il 30% all’estero. Oggi è al 60% in Italia e al 40% all’estero. Nel 2020 il 70% del fatturato deriverà dall’export. OMR lavora per Ferrari e Aston Martin, Lamborghini e Bugatti, Mercedes e Audi, Bmw e Daimler, più i marchi di Fca. Nel 2008 la produzione era realizzata per l’80% in Italia e per il 20% all’estero. La produzione all’estero è salita al 60 per cento. «Sta cambiando tutto – dice Bonometti, mentre alterna vino bianco e acqua minerale –, io faccio con i telai oltre il 30% del fatturato e, dunque, sento meno direttamente l’impatto dell’elettrico. Abbiamo appena preso, da una divisione di Apple, un ordine per consegnare 15mila telai in un anno. Dobbiamo operare perché in Europa, oltre a una più convinta difesa del diesel ormai meno inquinante di un tempo e oltre alla costruzione di una filiera dell’elettrico, si sviluppi la guida autonoma. La nostra tradizione manifatturiera non può che beneficiarne. Serve una politica industriale organica, decisa ed equilibrata anche su questo».
E, mentre finiamo di cenare con un sorbetto al limone e un caffè molto zuccherato, Marco Bonometti – industriale dell’auto che parlerebbe della “fabbrica” anche mentre dorme – mostra una sorta di rispettosa riconoscenza verso la durezza delle cose: «Oggi, nella società è finita l’epoca del potere nascosto e irresponsabile e della beneficenza fatta con i soldi degli altri. E, nell’industria, il mercato è così selettivo, ma anche così ricco di possibilità, che è più facile creare ricchezza che ereditarla. L’insegnamento della fabbrica è questo».