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 2019  settembre 22 Domenica calendario

Aspettando la guerra a Teheran. Reportage

Al mattino dall’aeroporto di Teheran al centro della città, le strade sono libere. Sembra dissolto l’ingorgo perenne, e però all’improvviso il traffico ricompare sulle tangenziali che tengono insieme questa metropoli da 7 milioni di persone. Ai lati delle strade squillano nel cielo azzurro del mattino i bandieroni bianco, rosso e verde della Repubblica islamica, e poi le bandiere nere, quelle per la morte del profeta Alì e quelle per le vittime, i martiri della Grande Guerra iraniana, contro l’Iraq. Sette giorni dopo gli attacchi in Arabia Saudita, Teheran sembra una caotica, normale metropoli asiatica. La capitale di un popolo che è ancora una civiltà. Ma non è tutto, perché per l’Iran normalità è vivere inseguito dalla guerra e inseguire la guerra, e da troppi anni.
Proprio oggi i pasdaran e i militari dell’esercito regolare si preparano a ricordare lo scontro del passato, quello lanciata da Saddam Hussein nel settembre del 1980 e subito per 8 anni dall’Iran rivoluzionario appena creato da Khomeini. Le "guardie della rivoluzione" usano oggi il conflitto degli Anni Ottanta per avvertire gli iraniani: lo scontro potrebbe ritornare, con gli americani e i sauditi al posto degli iracheni.
Nella notte fra venerdì e sabato nel Paese sono rimbalzati i primi annunci degli americani che inviano in Arabia Saudita missili e soldati. Il governo Usa fa una mossa in più verso una possibile ritorsione militare dopo l’attacco iraniano ai pozzi sauditi del 14 settembre. Il segretario alla Difesa Mark Esper dice che il presidente Donald Trump ha autorizzato lo schieramento in Arabia Saudita e negli Emirati di «altre truppe e altri armamenti per la difesa aerea e missilistica», per evitare che gli alleati si facciano cogliere ancora una volta di sorpresa.
Le nuove armi evidentemente sono quei radar, quei missili, quella artiglieria contraerea che gli americani non hanno offerto ai sauditi a protezione del loro Fronte Nord. Il fronte da cui sabato scorso sono arrivati i droni e i missili cruise che hanno colpito il mega-impianto di Abqaq e i pozzi di Khurais. L’America quindi chiude una incredibile "falla" militare, ma prepara anche i primi pezzi per una possibile ritorsione. Un nuovo attacco che Trump non vuole, ma che nessuno può escludere.
I generali dei pasdaran non rimangono in silenzio: parleranno di nuovo oggi alla super-parata militare che chiude la "settimana del martirio". È il periodo che ogni anno ricorda l’invasione irachena dello Shatt el Arab del 1980, l’atto che scatenò la guerra degli 8 anni fra Iran e Iraq. Da giorni le città sono invase di manifesti giganti che ricordano il sacrificio di milioni di iraniani. Ma i capi delle guardie della rivoluzione hanno un solo, vero obiettivo: i pericoli di domani. Il capo supremo dei pasdaran, il generale Hossein Salami, ieri ha lanciato una sfida: «perché una aggressione limitata non rimarrà limitata. La puniremo e andremo avanti fino alla completa distruzione di qualsiasi aggressore». Come dire, se pensate di bombardarci "soltanto" una raffineria, risponderemo.
Dopo Salami co mpare in tv il generale Amir Alì Hajizadeh, il capo della forza aerospaziale dei pasdaran, il reparto che controlla anche l’apparato dei missili balistici. Assieme al responsabile della "Forza Qods", il leggendario generale Qassem Soleimani, Hajizadeh è sempre più presente sui media. «Daremo una risposta devastante a qualsiasi aggressione», dice alla mostra militare "Avvoltoi da caccia", dove i pasdaran hanno messo in fila i resti dei droni americani abbattuti. La divisione spaziale controlla i missili balistici ma anche quella che Hajizadeh ha definito «la quinta flotta di droni più potente al mondo». Ovvero i droni pronti a colpire ancora l’Arabia Saudita se Teheran dovesse subire una ritorsione.
In questo gioco di minacce e avvertimenti, nessuno può prevedere come e quando ci saranno nuovi scontri. Per ora c’è una pausa: la dirigenza iraniana è a New York per l’assemblea delle Nazioni Unite. Il presidente Hassan Rouhani e il ministro degli Esteri Mohammad Zarif giocano una partita difficilissima. Sotto le nuove sanzioni economiche l’Iran sta soffocando. «Sono assai pesanti», dice un diplomatico iraniano, «sono anche un insulto, hanno iniziato anche a minacciare al telefono e mandare mail ai comandanti delle petroliere che caricano petrolio nei nostri porti, gli dicono di stare alla larga». In effetti l’Iran che riusciva ad esportare anche 2,4 milioni di barili al giorno, da settimane sarebbe fermo a 200/300 mila barili.
Ieri il ministro Zarif è tornato a sfidare (ma in verità quasi a implorare) gli americani: «Proprio adesso Trump ci mette altre sanzioni economiche, non hanno funzionato, eppure continuate a farlo». Nel mirino ci sono ancora la Banca centrale iraniana, il Fondo Nazionale di Sviluppo che è un fondo sovrano. Chiede a Trump di fermare, di smontare le sanzioni per provare a fermare la macchina della guerra.