Gli obiettivi si colgono a fatica, dice, però consiglierei di meditare su una frase di Stendhal: «La politica non è una lotta del bene contro il male, ma una scelta tra il preferibile e il detestabile». Un invito alla prudenza e, forse, anche alla letteratura che lui frequenta con soddisfazione. Ha tra le mani alcuni fogli di appunti per poter guidare il nostro incontro. Ma poi scopro che sono soprattutto richiami letterari, citazioni da vari autori: Conrad e Mann, Diderot e Goethe. L’elenco è lungo.
Che funzione svolge la letteratura nella sua vita?
«Ha da sempre un ruolo importante. Ho una predilezione per quella tedesca: Goethe e Mann sopra a tutti. E poi quella russa. Ma anche la Francia mi affascina: le Massime di La Rochefoucauld; Diderot e Stendhal. Proust. Ho un mio Proust fatto con tutte le frasi che ho annotato».
Prende spesso appunti quando legge?
«Sono il prolungamento dei miei pensieri».
Vedo che ha annotato una frase di Conrad.
«È piuttosto famosa ma rende bene l’idea della mia giornata: “Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?”».
Lui scrisse anche: “Si vive come si sogna, perfettamente soli”.
«Credo fosse in Cuore di tenebra, uno dei grandi romanzi della disperazione. Lo lessi a Salerno, da giovane».
È lì che è nato?
«Sono nato ad Atripalda, un paesino dell’avellinese. Però ho vissuto a Salerno. Mio padre era direttore dell’archivio di Stato e in seguito professore universitario. Mia madre insegnante al ginnasio. Ho una sorella che ha sposato Tullio De Mauro e un fratello, Antonio, che è stato un esperto importante di diritto internazionale. Il suo lavoro nell’ambito del tribunale speciale contro i crimini di guerra è stato pionieristico».
A Salerno fino a quando è restato?
«Sono andato via a 17 anni. La cosa più bella era il lungomare. Quella più terrificante l’ho vissuta nel settembre del 1943. Seicento navi schierate nel golfo puntavano i cannoni sulla città».
Divenne poi celebre per lo sbarco di Salerno.
«Lo fu grazie alla svolta di Togliatti, nell’aprile del 1944».
Svolta perché?
«Togliatti era tornato dall’Urss e tutti si aspettavano dal capo del comunismo italiano una posizione filosovietica.
In realtà capì che la cosa migliore fosse quella di trovare un compromesso tra le forze in campo».
Si creò un governo provvisorio.
«Furono rappresentate tutte le forze politiche presenti nel Comitato di Liberazione Nazionale. Nel 1944 avevo nove anni. Ricordo che un pezzo di quel governo si riuniva a casa mia».
Poi lascia Salerno per andare dove?
«A 17 anni vinco il concorso di ammissione alla Normale di Pisa. Il presidente di commissione era Delio Cantimori».
Grande storico.
«Indubbiamente. Una volta chiesi a Rosario Villari chi era
più grande tra Chabod e Cantimori».
«Chabod, anche se giudicava Cantimori uno storico straordinario».
Era comunque l’università di Giovanni Gentile.
«La sua morte ancora si percepiva. E l’idealismo gentiliano continuava ad avere lì le radici. Ma, in quei primi anni Cinquanta, l’azione degli studenti della Normale fu di netta contrapposizione alla politica conservatrice del corpo accademico. Personalmente mi iscrissi alla federazione giovanile comunista, fino a diventarne segretario locale».
Non sapevo di questo suo impegno diretto.
«Fino ai primi anni ’70 l’Italia non ha mai smesso, nei propri corpi statuali, la vocazione repressiva, ereditata dal precedente regime. Il governo di Scelba, lo scelbismo come fu chiamata la sua azione, ne divenne l’espressione più significativa. Allora poteva accadere, come a me è accaduto, che la polizia o i carabinieri venissero a informarsi col portiere o con i vicini se eri o no di sinistra».
Siamo una nazione che stenta a fare i conti con il proprio passato?
«Tra le tante cose c’è mancata una figura come Lutero».
«In questo caso è più di un fatto letterario, anche se Lutero ha forgiato la lingua tedesca».
«È il primo a elaborare, sulla scorta di Paolo, il concetto di
Beruf, che significa “vocazione”».
«A ciò che siamo chiamati a svolgere. Spesso è mancata l’idea di compito o, se vuole, di dovere. Il “debbo farlo” non è il frutto di un sentimento interiore, è vissuto solo come un fastidioso o insopportabile obbligo esteriore».
«Non accettiamo di buon grado quello che noi stessi ci diciamo di dover fare».
«Nel 1956, in giurisprudenza con una tesi sul corporativismo fascista».
Un argomento da prendere con le molle.
«Capisco la perplessità, ma non era mia intenzione rivalutare quella esperienza bensì vedere come nasce prima del fascismo e sopravvive perfino nella mentalità odierna».
«Divenni amico di Sebastiano Timpanaro, e poi di Marino Berengo e di Carlo Rubbia, che si laureò un anno dopo di me con una tesi sui raggi cosmici. Era un ambiente vivace e perfino stravagante. C’era anche Aldo Capitini, che non insegnava ancora».
«Era affascinato dalla figura di Gandhi. Si definiva un religioso laico. Certe volte pranzavamo insieme alla mensa della Normale. La sua scelta vegetariana lo portava a escludere ogni sospetta presenza di grassi animali.
Poteva chiamare il cameriere che arrivava in guanti bianchi per ritirare il piatto incriminato».
Guanti bianchi in mensa?
«Era così che funzionava la Normale».
Ma alla fine chi è stato il suo maestro?
«Indiscutibilmente Massimo Severo Giannini. Giunse in Normale nel 1952. Fu accolto come fosse il diavolo. Era stato socialista e capo di Gabinetto di Nenni. La sua intelligenza e le sue competenze si rivelarono fondamentali per la nascita della Costituzione».
Dopo la laurea che le accade?
«Nel 1957 entrai all’Eni. Fu Giannini a segnalare il mio nome a Giorgio Fuà, allora consigliere economico di Mattei. Voleva che un giovane con ottimi voti studiasse l’azione delle imprese pubbliche. Divenni anche capo ufficio studi del legislativo. Era ancora possibile che un giovane di 26 anni ricoprisse un ruolo così importante».
Ha frequentato Mattei?
«Sì, come scrisse Nenni nei Diari: “Personaggio di infinita seduzione”. La sua convinzione fu che un paese piccolo e senza materie prime poteva diventare grande. Coltivò questo sogno con straordinaria dedizione e realismo».
Da lui, si è scritto, nacque il sistema delle tangenti.
«Non c’è ombra di dubbio. C’erano i libretti di assegni che firmava regolarmente per partiti e uomini politici».
Come oggi?
«Però in un contesto diverso».
Nel senso?
«La corruzione, in certi momenti, è parte organica del sistema. Non la sto giustificando. Dico che occorre distinguere il giudizio storico da quello morale. Oltretutto Mattei aveva un totale disinteresse per le esigenze personali e viveva in maniera modesta. Era figlio di un carabiniere ed era stato partigiano nella Resistenza».
Cosa pensa della sua morte?
«Propendo per la fatalità. Sull’aereo che è precipitato io volai diverse volte. Lo spazio interno era ridottissimo, come fosse un caccia. C’erano quattro posti. Un velivolo piccolo e veloce. Il temporale che lo investì, durante il volo Catania-Milano, fu la causa della tragedia. Il che non esclude che furono diversi a gioire della sua morte».
Era ingombrante.
«Il conflitto con il consorzio petrolifero delle “Sette sorelle” era palese e aspro. Agendo per lo più in regime di monopolio non potevano accettare la strategia di un uomo che parteggiava per i paesi, soprattutto africani, che il petrolio lo avevano».
Muore Mattei e lei che fa?
«Vado via, abbastanza disgustato dai nuovi capi dell’Eni. Fuà che tra l’altro insegnava economia mi chiamò all’università di Ancona, dove sono stato per 13 anni».
Una scuola prestigiosa di economia.
«Assolutamente. Del gruppo facevano parte, tra gli altri, Giorgio Ruffolo, Claudio Napoleoni, Antonio Pedone».
Ma lei, giurista di formazione, che cosa c’entrava?
«Non credo che il diritto si studi solo con il metodo giuridico. Oggi è un’affermazione scontata ma un tempo era considerata una specie di eresia. Il diritto comprende molte componenti: sociali, economiche, perfino psicologiche. A me interessa come istituzione sociale. Ho anche scritto intorno alla costituzione economica».
Quindi un diritto che tenga conto delle spinte al cambiamento?
«Non può ignorarle, ma neppure piegarsi per debolezza a esse».
Vale anche per la Costituzione?
«La conoscenza e il rispetto della Carta sono requisiti indispensabili. Poi è il contesto storico che ne orienta il
senso».
Cosa rispose?
Intende dire che alcune cose che valevano non valgono più?
«Meglio: valgono meno. Piero Calamandrei e lo stesso Giannini sapevano che in certi punti la nostra Costituzione era sbilenca. Calamandrei disse che in nessuna parte della Carta era previsto il rafforzamento del governo. Ma si immagina in quel momento, con il mondo occidentale spaccato in due, con l’esperienza del fascismo alle spalle, chi avrebbe potuto avere il coraggio di inserire una norma del genere?».
Lei fu eletto giudice della Corte costituzionale. Che esperienza è stata?
«Per nove anni, dal 2005 al 2014, ho esercitato quel ruolo che mi fu offerto da Ciampi, allora Presidente della Repubblica. Mi telefonò chiedendomi la disponibilità.
Sinceramente non me lo aspettavo e in un primo momento pensavo di rifiutare».
Cosa le ha fatto cambiare idea?
«L’ammirazione e l’amicizia che avevo per Ciampi.
Quando tre mesi dopo mi ritelefonò, chiedendomi cosa avessi deciso, accettai la nomina. In quell’arco di tempo avevo maturato l’idea che avrei potuto svolgere quel ruolo non solo da giudice, ma anche da storico e da politologo».
Torna ai suoi amori tedeschi.
Ha seguito la sua natura versatile.
«Non ho mai cercato di occupare il centro di una disciplina scientifica».
In che senso lo assume?
Restare ai margini?
Vocazione per cosa?
«Era Einstein che diceva che il progresso delle scienze avviene sui confini. Voleva dire che è conveniente per un ricercatore tenersi in contatto con altri saperi».
f Siamo il paese della malavoglia?
Tornerei a Pisa: quando si laurea?
A me interessa svolgere la funzione di entomologo, consapevole che gli “insetti” che studio sono gli attori principali della felicità o dell’infelicità altrui
g Chi frequentava alla Normale?
Le piace il potere intellettuale?
«Mi chiedo se esista ancora, comunque è preferibile a quello politico».
Perché?
«Il potere politico è una brutta bestia».
L’apostolo della pace.
Lei più volte lo ha sfiorato.
«A me interessa svolgere la funzione di entomologo, consapevole che gli “insetti” che studio sono gli attori principali della felicità o dell’infelicità altrui».
Sono le promesse, spesso infondate, degli uomini politici.
«Loro calcano la scena, a noi studiosi il compito di valutarne le conseguenze».
Quasi sempre frutto di promesse inattendibili.
«Lo so, ma appartiene alle regole della retorica politica. Il punto vero è un altro».
Quale?
«Sapere che il potere spesso corrompe e allora bisogna avere dei correttivi. La domanda che io ritengo oggi capitale non è tanto chi va o no va al governo; ma che cosa accade se chi governa esce fuori dai binari. Ci vuole un capostazione che dica attenti: così si deraglia».
È lei l’uomo dei treni?
«La mia passione è cercare di capire dove sono i correttivi. Anche i migliori possono deragliare».