Robinson, 21 settembre 2019
Il ritorno di Wilbur Smith
Nell’harem andavo sempre scalza”. Come incipit per catturare l’attenzione del lettore, bisogna ammettere che non è male. Ma quello che segue poi risulta ancora più eccitante: 550 pagine di battaglie, amori, tradimenti, complotti e colpi di scena, mentre sullo sfondo si combatte la guerra d’Abissinia, tragica impresa coloniale italiana alla fine dell’Ottocento. Re dei re, titolo del nuovo romanzo di Wilbur Smith (pubblicato in Italia da HarperCollins), è come tutti sanno anche il soprannome di Menelik, l’imperatore d’Etiopia, che in questo nuovo capitolo dell’epopea africana di uno dei campioni mondiali di best-seller figura tra i personaggi realmente esistiti. In mezzo a nomi e luoghi che molti di noi ricordano dai banchi di scuola, il primo ministro Francesco Crispi, il generale Albertone, l’assedio di Macallè, il massacro di Adua, si muovono i protagonisti interamente frutto della fantasia: Amber Benbrook, l’affascinante fanciulla fuggita dall’harem di un sultano, e la sorella maggiore Saffron, più esperta di vita e ginecei; Penrod Ballantyne, l’ufficiale britannico che ha salvato Ambere si prepara a sposarla; Lorenzo De Fonseca, un militare italiano che dalle fumerie d’oppio del Cairo guiderà Ballantyne verso il cuore di tenebra abissino per cercare di ritrovare l’oggetto del suo desiderio; più un buon numero di malvagi d’ambo i sessi, intenzionati sino all’ultimo a impedire un lieto fine. Per gli appassionati del romanzo storico, a questo punto non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro: gli ingredienti ci sono tutti, accompagnati da colori, odori, suoni e misteri di un paesaggio che più esotico non si può, scanditi da sentimenti che vanno dalla passione erotica all’odio, dal coraggio alla viltà, dalla bramosia di potere alla cupidigia di denaro. Sangue, sudore e polvere da sparo, con generose spruzzate di erotismo soft. Nulla di sorprendente, insomma. Scrittore britannico nato in Rhodesia e cresciuto in Sud Africa al tempo dell’apartheid, Smith ha pubblicato più di cinquanta libri e venduto 150 milioni di copie, 25 milioni delle quali – pare: su tutto ciò che lo riguarda si posa un alone di leggenda – soltanto nel nostro paese. Re dei re appartiene a una delle sue tre saghe africane, il Ciclo dei Ballantyne appunto (le altre sono il Ciclo dei Courteney e i romanzi sull’antico Egitto). Dialoghi, descrizioni e trama sono un classi o del genere: una moderna versione di Emilio Salgari, per citare un maestro del racconto d’avventura di cui andiamo giustamente orgogliosi nel nostro paese. Con una importante differenza: mentre lo scrittore italiano, pur descrivendo la giungla dell’Estremo Oriente e i pirati dei Caraibi, in realtà non si mosse mai da Verona e Torino, Smith in Africa ci ha vissuto a lungo e nella sua prosa si sente. «Scrivo solo di ciò che conosco bene», è la risposta di rito alle domande sul segreto del suo così longevo successo. Di ciò che conosce bene, si potrebbe aggiungere, espesso di quello che ha vissuto direttamente, di persona: a parte la guerra, infatti, sulla propria pelle ha sperimentato quasi tutto il resto che costituisce materia della sua narrativa. Ha lavorato nelle miniere d’oro, sia pure soltanto come contabile; ha fatto i safari di caccia grossa; ha attraversato e circumnavigato il continente nero. Quanto ai conflitti intestini e alle rivalità familiari, è un campo in cui probabilmente lo battono in pochi, dopo tre divorzi e quattro matrimoni: l’ultimo dei quali, con un’affascinante tagika di 39 anni più giovane, lo ha portato a rompere completamente i rapporti con la sua mezza dozzina di figli e a diseredarli senza un briciolo di pentimento. «Sono generosissimo con chi sta dalla mia parte, ma totalmente egoista con chi mi si mette contro», avverte con una battuta che potrebbe stare in bocca a uno degli uomini d’acciaio dei suoi romanzi. Così come si potrebbe immaginare un intero romanzo a partire dalla dedica che apre Re dei re: “Dedico questo libro alla ragazza che amo, la mia Nisojon, che mantiene sfavillanti la mia mente e il mio cuore, con lei accanto non temo più nulla”. Beninteso, a qualcuno Smith può anche risultare antipatico: in passato è stato perfino accusato di simpatie per i razzisti bianchi sudafricani, sebbene lui smentisca, abbia lasciato la Rhodesia proprio perché non ne poteva più del razzismo e sia cresciuto insieme ai figli degli operai neri della fabbrica di suo padre. Un altro tipo romanzesco, il papà: grosso, forte, ex-pugile e spirito hemingwayano. La natura non ha dato a Wilbur lo stesso aspetto: piccoletto, mingherlino, con spessi occhiali, lo si potrebbe prendere per un impiegato. Ma il carattere è evidentemente di ferro, tale e quale gli eroi che descrive nelle sue pagine. O meglio che descrive ai suoi “ghost writers”, nemmeno tanto “scrittori fantasma” perché ormai firmano con nome e cognome in copertina sotto il suo: quello di Re dei re è una donna, si chiama Imogen Robertson, a sua volta apprezzata scrittrice inglese di romanzi storici, ma non altrettanto ricca e famosa, dunque verosimilmente contenta di fare da sua assistente. «I miei lettori pretendono nuove storie più velocemente del tempo che mi servirebbe a scriverle», spiega Smith senza complessi per l’operazione: cosicché lui fornisce la sinossi, dà indicazioni di massima, rilegge, taglia, aggiunge, corregge, ma è il co-autore che porta avanti l’opera vera e propria. Shakespeare non l’avrebbe mai fatto, per dirla con il titolo di un vecchio libro di Charles Bukowski, ma bisogna ammettere che il risultato è sorprendentemente buono: la vicenda prende dalla prima riga all’ultima, le pagine volano, non ci si annoia mai, si imparano pure un sacco di cose sull’Africa e, in questo caso, sulla sciagurata guerra italiana in Abissinia. Re dei re sarà anche stato il nomignolo dell’imperatore Menelik: ma nella letteratura di puro intrattenimento si adatta perfettamente a Wilbur Smith. Uno che ci mette un attimo a inventare storie avvincenti e, giunto a questo punto di una carriera durata oltre mezzo secolo, per evitare di perdere tempo si è trasformato in un formidabile marchio di fabbrica: basta il suo nome in copertina per vendere milioni di copie. Non è Joyce, certo. Ma di lettori delusi, fra i patiti della sua specialità, ce ne sono stati pochi.