Lo raccontano attraverso il loro nuovo romanzo “ Sesso, droga e lavorare”. Appunto
Un viaggio in macchina con Lodo, distrutto ma felice, dalla stazione di Bologna verso un paesino a mezz’ora di distanza dove Lo Stato Sociale sta lavorando in un piccolo studio di registrazione: in pratica una casa, con tanto di libreria. Lodo ha fatto l’alba “come un tempo”, dopo aver letto brani di Tondelli insieme al suo collega Bebo che leggeva invece pezzi tratti da Le città invisibili di Calvino a un festival culturale fiorentino gratuito che si chiama Copula Mundi, messo in piedi da un’associazione di 32 soci tutti under 35. Stiamo raggiungendo gli altri “regaz”, come ci si chiama a Bologna. Come sempre sono impegnati a fare mille cose, tutte diverse tra loro. L’ultima è un libro.
“Sesso, droga e lavorare”: un titolo strano.
Bebo: «Perché questo in realtà è un libro sul lavoro: su com’è oggi e su come potrebbe essere nel futuro. Sesso e droga ci sono perché sono comunque parti che accompagnano la vita del protagonista che si chiama Arturo e che rappresenta una tipologia di giovane secondo noi abbastanza comune».
Albi: «Il titolo fa un po’ di ironia sulla sacra triade “sesso, droga e rock’n’roll” dove, al posto dell’ultimo c’è il “lavorare” che è la condizione a cui, prima a poi, tutti si trovano inevitabilmente davanti: il grande dilemma del cosa fare, quando farlo e soprattutto perché».
Voi però il rock’n’roll invece lo fate davvero…
Albi: «Noi in realtà, come tutti quelli della nostra generazione, facciamo un sacco di cose: oggi siamo qui in studio per preparare i jingle di una trasmissione radiofonica “Lo Stato Sociale Show” (in onda su Radio2 alla domenica dalle 16 alle 17,30), abbiamo appena fatto questo libro, Lodo viene daX Factor in tv, Il giardino dei ciliegi a teatro e tra poco farà un film ( Dittatura Last Minute per la regia di Antonio Pisu), lo scorso anno abbiamo presentato a Lucca Comics un graphic novel intitolato Andrea e Checco, tra le varie cose, continua a fare il ricercatore: studia Internet semantico e l’intelligenza artificiale.
Insomma stiamo facendo qualsiasi tipo di lavoro pur di non lavorare…».
Il libro è basato su storie vostre vere?
Lodo: «Per la maggior parte è un lavoro di fantasia ovviamente mediato dalle nostre esperienze, da quello che ci sta intorno».
I colloqui di lavoro con l’odioso linguaggio anglo-burocratico tipo “la nostra mission è quella di far coincidere il più possibile le quest con l’offerta di lavoro (...) è la nostra vision” è molto realistica oltre che molto divertente.
Come vi siete documentati?
Albi: «Un po’ esperienze, un po’ io queste cose le ho studiate perché sarei laureato in sociologia del lavoro... C’è poi la parte del libro dedicata all’automazione nel lavoro che è immaginifica: la vita del protagonista Arturo, anche se all’inizio uno non se ne accorge, è spostata un po’ nel futuro, si arriva fino al 2038».
Il romanzo in qualche modo tratta anche l’idea di un reddito di cittadinanza. Siete favorevoli o contrari?
Albi: «Quello a cui pensiamo noi non è il reddito di sussistenza dei Cinque Stelle, cose di quel tipo esistevano già. Gli studi su quello che viene definito “basic income” dimostrano che è una misura che può funzionare solo se attuata in modo universale. Tutti vi devono accedere, anche chi percepisce già un reddito a seconda ovviamente dell’entità di questo. Unico requisito è, appunto, la cittadinanza. Lì poi si apre un discorso su chi è cittadino e chi no ma questo è un altro paio di maniche, legato ma non di tipo strettamente economico».
Un dato che viene fuori a livello mondiale è che l’incertezza lavorativa costituisce un motivo di inquietudine e di angoscia per le nuove generazioni…
Lodo: «E questo è il motivo per cui si rende necessaria la continuità di reddito che è, appunto, uno dei temi del romanzo ma svolto sempre naturalmente in maniera non saggistica: si può far fare a qualcuno anche un lavoro insignificante ma che comunque viene pagato come succede ad Arturo, il protagonista, perché sia incluso nella società. Arturo è complice e vittima di questo meccanismo: un po’ lo contrasta, un po’ ci sguazza, un po’ è contento, un po’ si ribella».
Anche nel dipingere il protagonista rappresentate un giovane che comunque respinge in maniera assoluta l’idea del rampantismo, dell’avere successo. Tutto ciò che fa avviene per caso o per impulso ma è comunque finalizzato a lavorare il meno possibile.
Albi: «A un certo momento della stesura ci siamo confrontati: il personaggio mi stava troppo sui coglioni perché il rischio era fare L’uomo senza qualitàma senza essere Musil. Arturo nel cercare di essere una persona a posto e tranquilla sta in una sorta di sospensione: il suo problema è quello di non riuscire ad immaginarsi il futuro e quindi pensa a cosa farà tra cinque minuti, non a quello che farà tra cinque anni. E sicuramente in questo si specchia in una contemporaneità in cui l’enorme quantità di prospettive apparenti finisce per lasciarti irrisolto, lasci aperte tutte le porte e non entri da nessuna parte».
Bebo: «Io credo che ci si trovi ad avere esistenze precarie e magari anche depressive perché non hai più l’impressione del futuro che ti arriva addosso e questo per me si lega anche al decadimento delle istituzioni che hanno smesso di portare possibilità e quindi di contribuire a costruire un’idea di futuro collettivo. Al massimo la tua ricerca può essere individuale, figurarsi poi se ci può essere un discorso di classe…».
Lodo: «E comunque non è vero che Arturo non ha ambizioni: Arturo ha l’ambizione di non fare un cazzo.
Scherzi a parte, la domanda è: posso aspirare a essere parte di una società anche se non produco? L’Italia nel bene e nel male non ha l’ossessione del lavoro di società come quella americana o giapponese. Tranne forse Milano o il nord-est…».
Non a caso il vostro famoso pezzo di Sanremo si intitola “Una vita in vacanza”. Oggi del resto anche la ribellione è più difficile. Una volta ti ribellavi al posto fisso alla ricerca di una tua identità, oggi forse lo cerchi.
Lodo: «Io non so se oggi cerchi quello, non credo. Di sicuro la ricerca di sempre è quella della felicità e dal momento che la felicità passa anche attraverso la ricchezza o comunque allo stare decentemente, la lotta di oggi sta nella diminuzione delle diseguaglianze».
Come è nato questo libro?
Bebo: «La prima volta che Albi ce ne ha parlato eravamo a berci delle birrette al vecchio Làbas, un centro sociale che è stato sgomberato due anni fa e però dopo grandi manifestazioni gli è stata trovata una nuova sede».
Lodo: «Anche perché nell’esperienza di questa città degli ultimi 20-30 anni era il luogo che più aveva legato con il quartiere Santo Stefano. L’unico quartiere di Bologna che storicamente vota a destra tanto che tutta la società civile era contro quello sgombero a partire dalla vecchietta che si era abituata a comprare la verdura dal bioagricoltore invece che alla Pam di fianco. Persino i bambini, le mamme erano tutti a picchettare per impedire di sgomberare un centro sociale e persino i giornali più a destra scrivevano che tutto sommato era un posto che andava bene perché era accettato dalla borghesia che è un modo molto di destra per spiegare un concetto molto di sinistra: che quel posto era casa di tutti».
So che avete sempre frequentato i centri sociali, quali in particolare?
Carota: «Io sono nato e cresciuto in Bolognina proprio di fronte all’Xm24 che è stato sgomberato questo agosto, ognuno di noi frequentava quello più vicino a casa sua anche se poi per una serata siamo andati un po’ in tutti.
Comunque quelli che abbiamo frequentato di più direi che sono il TPO, quello che fu L’Atlantide e, appunto il Làbas e l’Xm24».
Lodo: «Comunque ce ne sono sempre di meno se si considera quelli sgomberati e quelli che, come lo storico Link, sono ormai diventativeri e propri locali dove fanno ormai serate di musica elettronica e basta».
C’è differenza tra i vecchi centri sociali e quelli nuovi?
Carota: «Io sono stato alla manifestazione contro lo sgombero dell’Xm e per me con quello si è concluso un vero e proprio ciclo esperienziale: era uno spazio grande molto frequentato e in maniera ampia tra fratelli simili ma non identici, nel senso che era il punto di incontro di visioni politiche diverse ma simili. E questo tipo di cosa qua ormai non c’è più, non solo in Italia: si è tutto un po’ frazionato nel senso che i centri sociali più recenti sono quasi sempre situazioni piccole e anche omologati».
Ma si fa ancora politica? E se sì di che tipo? Con le vecchie parole d’ordine o in maniera diversa?
Checco: «La mare Ionio e tutta l’operazione Mediterranea è supportata da una grande fetta della rete dei centri sociali tra cui TPO e Làbas, queste settimane imbarcato c’è Mario che è un attivista di Làbas. Quando quello che c’è intorno ti porta a questo tipo di scelta direi che è abbastanza avanguardia secondo me».
Carota: «Noi con il TPO siamo stati uno dei primi casi di concordato con il comune: si chiama ancora Teatro Polivalente Occupato ma non è più un’occupazione illegale, è uno sfruttamento di edifico pubblico in concordato con il comune: vengono pagate le bollette, i servizi e così via ma in maniera agevolata perché il comune ne riconosce il valore culturale e sociale sul territorio. E sempre di più si sta andando in questa direzione. E poi invece ci sono certi centri sociali che sono meno facili all’istituzionalizzazione. L’Xm24, per esempio, essendo una realtà di area anarchica è molto meno incline al compromesso con le istituzioni anche se forse dopo lo sgombero un accordo si è trovato».
Lodo: «Diciamo che in questa città sono sopravvissuti gli animali più capaci di adattarsi: chi portava con sé una radicalità depressiva da esclusi anni 90 che sarebbe stata una radicalità da inclusi fantasiosa anni 70, passata attraverso la rabbia grunge contro i grandi sistemi del capitale anni 80, non ha avuto vita facile. Gli esempi di questo tipo direi che sono stati sì Xm24 ma anche Atlantide che era il posto più vicino alla comunità Lgbt ma era anche un luogo in cui potevi entrare e sentirti davvero come fossi nel 1993. Quelli che invece hanno deciso, come i tempi richiedono, di portare alcune istanze di movimento nel tessuto sociale hanno saputo allacciare un nuovo tipo di rapporto con la città. La verità comunque era ed è una sola: che le città hanno bisogno di centri sociali».
Di fronte a questa nuova complessità la ribellione da dove passa oggi?
Albi: «La cultura è sempre la porta che apre delle possibilità, anche quella che viene dal basso, dai centri sociali appunto, anche perché gli intellettuali in questi anni non c’erano o erano percepiti come lontanissimi».
Lodo: «Noi siamo la prima generazione cresciuta con l’idea che saremmo nati e morti con il capitalismo. Anche solo riuscire a dare l’impressione alle persone che non è detto che si debba vivere così è — wow!
Beh sì, è già quella la rivoluzione culturale…».