la Repubblica, 21 settembre 2019
I bambini da salvare in Yemen
ASLAM (YEMEN) — Dalle prime ore del mattino, ogni giorno, centinaia di donne si mettono in coda di fronte alla clinica per malnutrizione di Aslam, Nord dello Yemen, per aspettare una visita, una diagnosi, un pacco di soia che sostituisca il cibo che non c’è. Una coda di sagome nere, volti coperti, mani nascoste dai guanti scuri a stringere bambini che la fame ha reso rugosi e scavati. Volti grandi come un pugno, gambe a malapena ricoperte di pelle, bambini uniti nel suono inconfondibile del pianto quando è prodotto dalla fame.
Alcune raccontano di aver camminato tre ore, a temperature che superano i 40 gradi, perché nella capanna di foglie non c’era niente da mangiare, né acqua pulita da bere. Qualcuna ha lasciato altri figli a casa e portato con sé solo il più grave. Perché la guerra può essere anche questo: una madre costretta a scegliere a quale dei suoi figli dare la possibilità di sopravvivere. Aspettano che gli infermieri pesino i bambini in una bacinella blu appesa al soffitto e misurino la circonferenza dell’avambraccio per stabilire la gravità della malnutrizione. E la circonferenza si ferma quasi sempre sul rosso: malnutrizione acuta.
Aslam è un distretto di circa 100mila persone, a cui si sono sommati 30mila sfollati che hanno abbandonato le loro abitazioni distrutte dai bombardamenti o troppo prossime alle linee del fronte ancora attive. Secondo un recente report dell’Ipc, Integrated Food Security Phase Classificantion, in 11 distretti yemeniti nel Nord del Paese, le sole aree che i ricercatori sono stati in grado di visitare, 1,2 milioni di persone vivono uno stato di insicurezza alimentare e mezzo milione sono in “emergenza”. Di questi 11 distretti cinque sono prossimi ad Abs. Uno è proprio il villaggio di Aslam.
A prendersi cura di tutti, Mahkia al Aslami, che dirige la clinica. Ai checkpoint i miliziani Houti la chiamano “doctora”, dottoressa. Così pure all’entrata della clinica che dirige nella campagna di Abs. La chiamano così anche i miliziani davanti al cancello di ferro che è il limite ultimo per i kalashnikov: «da qui in poi si entra solo disarmati», dice la “doctora” con la fermezza di chi sa di aver guadagnato il rispetto di tutti. Makhia ha 50 anni, un’espressione inquieta sul viso incorniciato dal velo, il corpo esile prostrato dalla fatica di aiutare gli altri a sopravvivere. Che nello Yemen significa aiutarli a non morire di fame.
La “doctora” in realtà è un’infermiera, lo era prima della guerra, lo è rimasta dopo il 2015, con la responsabilità – affidatale dal ministero della Sanità del governo dei ribelli Houti insediato a Sana’a – di dirigere la clinica per i casi di malnutrizione del villaggio di Aslam. Una delle aree più povere e remote in un Paese che vive ormai il quinto anno di un conflitto diventato uno stallo, di cui sono protagonisti da un lato il governo eletto ed esiliato ad Aden, dall’altro i ribelli Houti che controllano la capitale e la zona settentrionale del paese, che è la più popolosa. Ma la partita yemenita è ben più che una guerra civile, è ormai la paralisi di un conflitto per procura con i sauditi a sostegno del governo del presidente Abd Rabbu Mansour Hadi e l’Iran a sostegno degli Houti, stati terzi che si contendono il controllo di un’area economicamente e geograficamente strategica del golfo. A pagare – come sempre in guerra – i più poveri tra i poveri.
Makhia non è sposata, non ha figli. Considera ogni bambino che entra nella clinica un figlio suo. Come altri infermieri e medici non ha ricevuto lo stipendio per mesi, conseguenza della crisi economica, dell’inflazione e del crollo del rial, la valuta locale. Ciononostante è sempre la prima a entrare in clinica e l’ultima ad andare via la sera, quando le luci si spengono e non c’è neppure carburante per far funzionare il generatore di corrente. Makhia in questi anni ha visto cambiare l’area dalla prospettiva tragica dei reparti della clinica: «Gli affamati si sommano agli affamati – dice – noi proviamo a dividere il poco che abbiamo con pazienti che aumentano ogni giorno. Ne sistemiamo due su ogni letto e chiediamo alle madri di dormire a terra».
Prima della guerra gli uomini della zona lavoravano in Arabia Saudita, ora il confine è un fronte, gli uomini sono a casa e le famiglie prive di mezzi di sussistenza. «I bambini che arrivano nel centro – dice Makhia – non hanno nemmeno un pannolino, è un lusso che le famiglie non possono permettersi, chi ne ha uno o due li lava finché può. Talvolta chiedono un po’ di elemosina per comprarne uno prima di portarli qui perché provano vergogna». Altre donne in coda raccontano di aver pagato 2/3mila rial (10 euro) il trasporto per raggiungere la clinica e doverne pagare altrettanti al ritorno, significa privarsi di un pacco di farina. Perché i più poveri tra i poveri vivono in villaggi remoti nelle campagne, senza acqua né elettricità, né mezzi per spostarsi. «Tutto ha un costo ormai, un passaggio per cercare un medico o mezz’ora del trattore del vicino per provare a coltivare qualcosa. Chi ha un bene lo vende o lo affitta e chi non ha niente muore di fame. Il risultato è che in Yemen tutto è in vendita ormai, anche la dignità», dice Makhia, mentre chiede alle donna cosa abbiano mangiato negli ultimi giorni. E la maggior parte risponde di aver bollito acqua e foglie. Talvolta hanno della farina ma l’inflazione ha fatto lievitare i prezzi dei beni primari, quello che prima della guerra costava una manciata di rial, oggi è un lusso. E chi non ha lavoro e non ha soldi, mendica. È la grande ed evidente contraddizione dello Yemen: migliaia di donne e bambini a elemosinare di fronte a mercati pieni di cibo.
Alla fine di agosto Muna Luqman, presidente di Food4Humanity, un’organizzazione benefica locale, ha dichiarato che nello Yemen «anche l’acqua è diventata armata». Perché acqua sporca significa colera e sono già 18 milioni gli yemeniti che non hanno accesso all’acqua e negli anni passati la carenza di acqua potabile ha innescato un focolaio di colera che ha coinvolto un milione e 200mila persone, rendendo l’epidemia yemenita la più grande nella storia registrata. Cibo e acqua usati come armi, come pressione sulle organizzazioni internazionali e sulla gente. Perché in guerra, chi controlla le derrate nelle zone sotto assedio controlla il consenso.
Nei giorni trascorsi con Makhia in clinica sono stati ricoverati 19 bambini con malnutrizione acuta. Prima della guerra ne contavano due, tre al massimo ogni settimana. Mohamad Ali Samtan è il padre di una di loro. Sfollato da Saada due anni fa, vive in una capanna di foglie e fango, non ha lavoro. Ha sette figli. È la terza volta che porta sua figlia – 10 mesi – nella clinica di Makhia. La guarda mangiare, ma sa che quando la porterà a casa di nuovo, non troverà nulla. «La guardo e so che non sarò in grado di sfamarla. Sono senza parole. Gli uomini non possono più niente. Siamo nelle mani di Dio», dice con dignità, seduto accanto al corpo della figlia. Che come le altre migliaia di corpi fragili dei bambini yemeniti, è la vera linea del fronte su cui si combatte una guerra subdola e impietosa.