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 2019  settembre 21 Sabato calendario

La fretta di cambiare

Data la progressiva frammentazione del nostro quadro politico – che appare avviato a una sorta di implosione all’insegna di una continua composizione e ricomposizione dei cosiddetti partiti (che perlopiù sono ormai tali solo di nome) – per il trasformismo si annunciano momenti d’oro. E del resto se n’è già avuta più di un’avvisaglia nelle settimane scorse. Non è male allora chiarirsi un po’ le idee su un fenomeno che molto verosimilmente è destinato a caratterizzare la stagione politica apertasi un mese fa. 
La prima cosa da chiarire è che trasformismo non significa affatto cambiare opinione su questa o quella questione. Non vuol dire cambiare idea. Ci mancherebbe altro. Il mondo, le situazioni, i protagonisti cambiano a velocità vertiginosa: sarebbe assurdo che invece deputati e senatori dovessero conservare sempre la medesima opinione di cinque, dieci, o anche un anno prima. Le cose stanno però ben diversamente quando si tratta del mutamento della propria identità politica e non già di un semplice mutamento di idee su una determinata questione, sia pure importante.
In un regime democratico l’identità politica sia dei singoli che dei partiti è data sì dalle loro rispettive opinioni su alcuni problemi chiave (opinioni che tuttavia, come ho detto, con il tempo possono benissimo attenuarsi, essere lasciate cadere, mutare in parte o del tutto) ma assai di più è data da un fattore diverso: dagli amici e dai nemici che si hanno o che si decide di avere. È per questo che in politica i programmi valgono quello che valgono (generalmente poco), e invece conta moltissimo con e in special modo contro chi si pensa di attuarli. Non per nulla, specie da quando esiste il suffragio universale, un governo non si caratterizza tanto per le cose che si propone di fare (che spesso almeno negli obiettivi non differiscono molto da uno schieramento all’altro) quanto per la sua composizione – cioè per le forze che si mettono insieme per farle – e al tempo stesso per quelle escluse, le quali vengono così a trovarsi all’opposizione.
Dunque è l’identità degli amici e dei nemici, il carattere più o meno repentino con cui cambia il giudizio su chi siano gli uni e chi gli altri, e quindi il mutamento degli amici in nemici e viceversa: sono questi elementi la vera cartina al tornasole del trasformismo dei singoli e dei partiti. Lascio giudicare ai lettori se negli ultimi tempi un qualche mutamento del genere sia accaduto in Italia e ad opera di chi. 
In tema di trasformismo una spia decisiva è quella dei tempi e dei modi. Da questo punto di vista solo chi ha una conoscenza sommaria e raffazzonata della storia d’Italia, ha potuto nei giorni scorsi invocare come un esempio – diciamo così – di buon uso del trasformismo quel «connubio» operato da Cavour con la sinistra di Rattazzi nel novembre del 1852, destinato poi a caratterizzare la grande stagione del nostro Risorgimento. Il paragone fa acqua da tutte le parti. Infatti il gran conte – che come ministro del governo D’Azeglio da più di un anno manifestava il desiderio di una politica più coraggiosamente liberale rispetto a quella adottata dal gabinetto, guadagnandosi proprio per questo la crescente ostilità della parte moderata della maggioranza – una volta che D’Azeglio per chiarire la situazione si dimise e formò un nuovo governo, non ne fece parte. Partì addirittura per un lungo viaggio all’estero. Solo quando il nuovo ministero D’Azeglio – minato dalla debolezza della propria base parlamentare – fu costretto a dare le dimissioni e il re affidò l’incarico a Cavour, solo a quel punto questi fu pronto a raccoglierne la successione varando finalmente una maggioranza di centro-sinistra che metteva insieme il gruppo liberale a lui fedele e la sinistra democratica di Rattazzi. Così andarono allora le cose, nei tempi e nei modi, nel Parlamento subalpino: c’è qualcuno così audace da suggerire una sia pur pallida somiglianza con quanto è successo ultimamente nelle Aule del Parlamento italiano? La verità lo ripeto, è che moltissimo in questo genere di cose dipende dai tempi e dai modi. Ci possono essere buone, buonissime, ragioni non solo per cambiare idea su questa o quella faccenda ma anche per decidere di cambiare la propria identità politica. Possono esserci. Ma non possono essere ragioni subitanee che spuntano un bel giorno dal nulla. Se viceversa tali ragioni maturano da tempo, allora però esse non possono essere tenute nascoste per più di tanto. Non si può ad esempio (ma è un esempio preso da fatti realmente accaduti: il lettore sa quali) continuare ad apparire all’esterno come un avversario della sinistra, non si può aver costruito su tale base la propria identità politica, stare addirittura in un governo che si contrappone alla sinistra, e nel proprio intimo, senza darlo in alcun modo a vedere, essere pronti di punto in bianco a diventare alleati della sinistra stessa. Il nicodemismo ha diritto di cittadinanza tra i sudditi delle dittature, non nei parlamenti delle democrazie.
Questo non è moralismo, è l’ovvia necessità che il pubblico sappia chi ognuno è, e che pensa. Così come non è moralismo pensare che chi in politica cambia idea o identità sia naturalmente liberissimo di farlo ma, se davvero vuole evitare di essere accusato di trasformismo, si senta tenuto almeno a una cosa: ad ammettere pubblicamente di aver cambiato idea o identità. E magari a spiegare anche per quale ragione.