Tuttolibri, 21 settembre 2019
Intervista al giallista tedesco Wulf Dorn
Ho deciso di diventare scrittore a 12 anni, quando mi sono innamorato di un libro di racconti di Stephen King, Nightshift. L’ho letto e riletto tante di quelle volte che alla fine l’ho consumato, nella mia mente continuavo a girarmi delle scene come se fosse un film». Nel viso e nei gesti dello scrittore tedesco Wulf Dorn, classe 1969, si intravede ancora quel ragazzino Anni 80: il ciuffo chiaro spettinato, gli occhi scintillanti, il fisico irrequieto, che pare pronto a saltare in piedi e correre al minimo preavviso. «Sono tuttora un fan sfegatato di Stephen King - sorride quasi timido - stasera sono invitato alla prima di It 2 e non vedo l’ora. L’ho anche conosciuto, 5 anni fa. Ero talmente emozionato che ho fatto una gaffe, gli ho detto "È colpa tua (invece che è merito tuo) se sono diventato scrittore". E gli ho dato da firmare la mia copia di Nightshift tutta rovinata. Adesso la conservo in una teca...».
Il passaggio dal desiderio alla sua realizzazione è stato lungo, perché Dorn, prima di diventare un autore di best seller (tutti pubblicati in Italia da Corbaccio) come La psichiatra, Il superstite, Follia profonda, Il mio cuore cattivo, Phobia, Incubo e quest’ultimo Presenza oscura per vent’anni ha lavorato come logopedista in una clinica psichiatrica. «Non è stato certo tempo sprecato - dice adesso - mi ha dato ispirazione come scrittore».
Senza quegli anni non scriverebbe frasi come «Le sinapsi del cervello sono più numerose delle stelle della Via Lattea»?
«Forse no: la formazione scientifica conta moltissimo nella mia scrittura. Intanto come metodo di lavoro. E poi, soprattutto, la psichiatria mi ha insegnato quanta differenza ci sia fra un individuo e un altro nella percezione della realtà. I pazienti psichiatrici sentono voci a cui noi siamo sordi, vedono persone a cui noi siamo ciechi. Il confine tra la realtà e l’illusione è sottilissimo e non bisogna essere per forza pazzi per superarlo: accade a tutti noi, quando siamo molto stanchi. Per un attimo l’immaginazione si può toccare».
Nel suo libro i fantasmi sono reali e il confine tra vita e morte è molto labile. Come mai ha deciso di affrontare questo tema?
«La morte e la possibilità di vita oltre la morte non è un argomento facile, all’inizio non sapevo bene come mi sarei mosso. Tutti abbiamo paura della morte e nessuno ha voglia di pensarci: è un pensiero che accantoniamo e preferiamo dedicarci alla rassicurante routine quotidiana. Poi esistono momenti nella vita di tutti noi in cui siamo costretti ad affrontarla, perché perdiamo una persona cara o semplicemente i fatti ci dimostrano che siamo mortali. A me è capitato di recente, a causa delle complicazioni di un’operazione chirurgica. Ho pensato al dopo, ho pensato che sarebbe bello poter essere aiutati dai vivi a portare a termine quello che non siamo riusciti a finire».
Vuole dire che dopo quell’episodio ha incominciato a credere alla vita dopo la morte?
«Non esattamente, la penso anche io come il dottor Mehra del romanzo: per poterci credere avrei bisogno di una prova. Ma ho smesso di rimuovere l’argomento: ho iniziato a leggere testimonianze, a studiare teorie, a occuparmi più approfonditamente della morte. Attualmente la massima autorità in questo campo è il cardiologo britannico Sam Parnia. Il suo progetto AWARE sui processi cerebrali durante la morte mi ha dato molte informazioni preziose. Peraltro continuo a nutrire dei dubbi, come Sasha. Comunque non voglio negarmi nessuna possibilità»
La morte e la fanciulla, un binomio caro ai romantici: spesso i protagonisti dei suoi libri sono adolescenti, cosa la affascina di quella età?
«In questo caso, mettere a confronto una sedicenne e la morte era un modo per alzare il potenziale drammatico della storia, perché una persona giovane non pensa neanche alla possibilità di morire, è tutta proiettata verso la vita. In generale mi piace lavorare con protagonisti adolescenti, perché affrontano ogni situazione per la prima volta, un po’ come me che per la prima volta mi trovo a raccontarle un libro. Guardarle attraverso i loro occhi mi permette di vederle con occhi nuovi, freschi, non ancora irrigiditi dai pregiudizi. Si trovano in quella "terra di nessuno" in cui non sono più bambini, ma non ancora adulti. Rappresentano anche tutti noi, dato che il processo di maturazione in realtà non finisce mai ».
Da parte loro i genitori o sono assenti, o non capiscono nulla. Poca fiducia nel mondo degli adulti?
«Il fatto è che mi metto dal punto di vista dei ragazzini e per loro, si sa, gli adulti non capiscono niente. La verità e che gli adulti certe cose non le vedono più, le danno per scontate, io voglio obbligarmi a guardarle».
Che cosa è la paura? E che cos’è il coraggio? Lei sembra dare una risposta scientifica anche a come affrontare le nostre paure...
«Credo che la razionalità sia l’arma migliore contro la paura, perché la paura è irrazionale. In generale a farci paura è l’ignoto: vogliamo avere tutto sotto controllo nella nostra vita, facciamo programmi precisi di viaggio, dove andremo a dormire o a mangiare. Aver paura è come trovarsi improvvisamente in un paese straniero, da soli senza conoscere la lingua, senza nessun riferimento. Oppure entrare in una stanza che conosciamo benissimo e improvvisamente trovarsi al buio. La cosa migliore, in questa situazione, è chiederci di cosa abbiamo paura e guardarla direttamente negli occhi».
Di cosa ha paura lei oggi?
«Nel corso degli anni le mie paure sono diventate più concrete. Temevo i mostri e il buio da ragazzino, oggi mi fa paura la situazione mondiale, la possibilità di una guerra. Ho paura che il mondo nel quale vivo e mi sento sicuro, la nostra vita così bella, possa finire. Ma sopratutto la cosa che mi fa più paura è il populismo, che dà risposte semplici a domande complesse».
I social media sono visti molto negativamente nel libro, youtube è più minacciosa dei fantasmi, eppure per gli adolescenti di oggi la realtà virtuale è più autentica di quella reale...
«Sono da anni un sostenitore Unicef e mi hanno appena mandato un rapporto sul cyberbullismo: un terzo dei ragazzi ha subito atti di bullismo on line, e molti insuccessi scolastici nascono proprio da qui. Poi, per carità, non si può certo tornare indietro, e i social media sono anche una magnifica occasione per me, per esempio di tenermi in contatto con i miei lettori lontani, dall’Uruguay o dalla Nuova Zelanda, cosa che mi diverte sempre. Ma vanno affrontati con un senso di responsabilità, come tutto del resto».
Nel libro cita Stranger things. Le piacciono le serie tv? E i film?
«Libri, serie tv, film, divoro tutto, sono affamato di storie. Ascolto anche moltissima musica, è una delle mie fonti di ispirazione più importanti. Trovo fantastica Stranger Things, sarà anche l’ambientazione Anni 80, i ragazzini protagonisti potrebbero essere miei coetanei. E poi è molto kinghiana l’idea dell’orrore nascosto sotto la piccola città. Tra gli autori, oltre a King, mi sento molto in sintonia con Neil Gaiman. Come regista cinematografico il mio prediletto è Quentin Tarantino, magnifico questo suo ultimo Once upon a time in Hollywood. Mi piace perché è sempre rispettoso della storia e del lavoro altrui, gli piace citare nelle sue opere le persone che ammira, anche io cerco di fare così. E trovo bellissima questa sua idea di inventare storie per cambiare il finale alle tragedie. È un vendicatore dell’immaginario».