Tuttolibri, 21 settembre 2019
De Chirico poeta
Giorgio de Chirico poeta? La notizia potrà sorprendere persino i cultori del pittore «metafisico» per eccellenza, che ha praticato pure la scrittura letteraria ma in maniera quasi carsica, o comunque assai meno visibile rispetto al fratello Andrea, alias Alberto Savinio. Eppure un anti-romanzo come Hebdòmeros, uscito nel 1929 in pieno clima surrealista, aveva già sottolineato l’interazione fra la creatività pittorica e quella letteraria, tenute insieme a filo doppio da un pittore che si rivolge a sé stesso nella veste di scrittore per comprendersi meglio.
Proprio intorno al 1928-29 si collocano molti dei testi che vengono raccolti, per le cure competentissime di Andrea Cortellessa, in questo importante volume edito dalla Nave di Teseo sotto gli auspici della Fondazione Giorgio e Isa de Chirico. Il suo Presidente, Paolo Picozza, rievoca nella premessa i tempi delle varie riscoperte di poesie in italiano e, soprattutto, in francese, segnalando la natura in parte ludica, in parte evocativa di questi testi, che peraltro furono preceduti da un’altra intensa fase negli anni Dieci, e in specie tra il 1911 e il ’15, in perfetta corrispondenza con l’esplosione parigina del nuovo stile pittorico.
Ma, al di là delle informazioni di contesto, ben fornite dai ricchi apparati, qual è il sigillo specifico della poesia del Pictor optimus? È evidente che, in gran parte dei testi, domina la volontà di costruire un mondo utopico, se vogliamo una vera «casa di carta del pittore», in corrispondenza ideale con l’acquerello del 1918, La casa del poeta, in cui travature e torri sghembe riescono a mettere in contatto amorini volanti, piante contorte e altri ritagli di reale e immaginario. È la manifestazione visiva o scritta del «pensiero mitologico» che sta alla base dell’arte dechirichiana, da intendersi come la tensione a tradurre pulsioni, paure, incertezze in specifici oggetti misteriosi, non razionalizzabili, amici o nemici ma comunque non umani, un po’ come accadeva con i miti antichi riletti con strumenti di tipo psicanalitico.
Un esempio. Quando de Chirico scrive, prima in francese e poi in autotraduzione italiana, «Vita, vita, grande sogno misterioso! Tutti gli enigmi / che tu mostri; gioie e bagliori...» ha senz’altro presente la grande lezione di Rimbaud. Ma poi aggiunge subito tratti che derivano dalla sua selezione stilistica di oggetti pittorici («Portici al sole. Statue addormentate…»), e successivamente l’elemento misterico che rende la quotidianità un mito da interpretare: «E l’enigma della scuola, e la prigione e la caserma… / Sempre l’incognito; il risveglio al mattino e il sogno che si / è fatto, oscuro presagio, oracolo misterioso…». Potremmo parafrasare: «l’enigma si è fatto arte».
In un certo senso, queste poesie svelano la natura di rebus della pittura metafisica. Ogni elemento di realtà, decontestualizzato, diventa un’incognita, di cui sentiamo di avere la soluzione, ma non la troviamo per un minuscolo elemento che continua a mancarci. Noi pensiamo di sapere, nei quadri dechirichiani, che le torri sono quelle di Ferrara, le statue le abbiamo viste nei musei, i portici ci condurranno all’infinito: eppure ci manca la lettera, magari il pi greco che consente di arrivare allo scioglimento dell’enigma. In risposta a un mondo che si rifiuta di essere eterno, bisogna costruire alternative poetiche e pittoriche che rifiutino di essere contingenti: piccoli miti tutti personali, come nei versi e nei poèmes-en-prose; grandi miti meta-fisici nei quadri, metamorfosi colorate di un universo, prevalentemente greco, ormai costretto a confrontarsi con la feroce fisicità dell’epoca delle Avanguardie.
In effetti nei testi di de Chirico si rivelano anche le paure del pittore, che vengono scaricate sui fruitori ma sono all’inizio quelle proprie dell’artista. Basta notare quante «notti» sono evocate nelle poesie, ben di più (in proporzione) rispetto a quelle dei dipinti, e quanto la notte coincida con il nero eterno, quello della tomba: tutta la terra diventa «un noir tombeau» e in questo vuoto assoluto, forse solo lì, la tempesta del cuore si assopisce lentamente.
Dunque, un de Chirico che si svela quando è poeta e si nasconde quando è pittore? Sarebbe una soluzione troppo facile, perché gli ammiccamenti, le deviazioni, i giochi di specchi sono continui, e poi non deve essere mai dimenticata una cifra che, nei testi scritti, si coglie in più punti: l’ironia. Nell’elaborare i propri miti il Pictor optimus sembra mantenere un sottile distacco che diventerà autocitazione irridente, enfasi provocatoria, al limite auto-distruzione. Nello stile poetico, questo si coglie già nella scelta del francese non solo in quanto lingua prediletta, ma anche adatta a versi che si chiudono con rime facili e suoni ribattuti, un armamentario certo praticato nell’Italia coeva (pensiamo a Palazzeschi) e però ormai ben più naturale nella letteratura francofona. Ciò non toglie che, nonostante tutto, la Poesia e la Pittura restino per de Chirico due «Dee», presso il cui tempio storto si può trovare rifugio.